Andrea Zaghi
Una busta con alcuni proiettili dentro. Non è l’inizio di un giallo, ma la realtà che vive una parte importante dell’agricoltura italiana. Il fatto è nelle cronache di queste ultime settimane. A Giovanni Tomasino, direttore del Consorzio di bonifica Sicilia Occidentale, qualche giorno fa è stata spedita una busta che è una minaccia. Messaggio chiarissimo per chi, da tempo, sta cercando, come ha spiegato una nota di Anbi (l’Associazione nazionale consorzi gestione tutela territorio ed acque irrigue), di riaffermare le professionalità presenti anche nei Consorzi di bonifica siciliani. Questione soprattutto di far diventare sempre di più i Consorzi di bonifica “presidi di legalità e di trasparenza a servizio delle esigenze vere del territorio, di cui sono espressione”. Obiettivo ammirevole, soprattutto in una regione, la Sicilia, nella quale l’efficienza di queste strutture “è stata annichilita – dice ancora Anbi -, da anni di ingerenze di una mal interpretata politica, cui viene chiesto, da tempo, un passo indietro per permettere il ritorno all’ordinario regime democratico degli enti, ponendo fine a commissariamenti senza fine”. Ordinarietà che diventa eccezione, dunque. Anche in agricoltura.
Che poi proprio i campi e le stalle d’Italia siano stati, e siano ancora oggi, oggetti delle attenzione della malavita organizzata, è cosa risaputa ma forse non ancora così nota. L’affare è d’altra parte di quelli grossi. Coldiretti ha stimato qualche settimana fa che il giro d’affari delle mafie agricole sia arrivato attorno ai 22 miliardi di euro all’anno. Un’enormità che si produce in mille modi diversi: dai campi ai mercati all’ingrosso, dai punti vendita ai ristoranti fino alle nostre tavole. Insomma, i criminali toccano praticamente l’intera filiera del cibo. Le mafie – ha detto più volte Coldiretti (e non solo) – condizionano il mercato agroalimentare stabilendo i prezzi dei raccolti, gestendo i trasporti e lo smistamento, il controllo di intere catene di supermercati, l’esportazione del nostro vero o falso Made in Italy, e lo sviluppo ex novo di reti di smercio al minuto. E tutto senza dire del caporalato.
Abigeato e taglio delle piante in campo, incendi e furti di scorte e macchinari, minacce e intimidazioni (come appunto quella fatta arrivare a Tomasino) fanno parte del ventaglio di strumenti a disposizione di quelle che sia chiamano ormai agromafie. In questo modo – dicono ancora i coltivatori -, la malavita si appropria di vasti comparti dell’agroalimentare e dei guadagni che ne derivano. Con ulteriori conseguenze, come la distruzione della concorrenza e del libero mercato, la mortificazione dell’imprenditoria onesta, la grave compromissione della qualità e della sicurezza dei prodotti. E tutto genera un flusso ininterrotto di soldi che a sua volta facilita l’aggravarsi della situazione.
Certo, i controlli ci sono e i risultati anche. Me è evidente che non bastano ancora. Anche se la parte sana del settore ha perfettamente coscienza che è proprio dalla lotta alle mafie agricole che passa la rinascita di vaste aree del Paese così come il rilancio di tutto l’agroalimentare nazionale. “Stringere le maglie” dei controlli, è quanto viene chiesto a gran voce. Cosa sacrosanta, che deve essere fatta (al di là del colore degli schieramenti e dei governi). Ma serve anche serrare le fila di quella che viene definita società civile, che tanto spazio ha anche nell’agricoltura e nell’agroalimentare, attorno ai molti Giovanni Tomasino che lavorano attorno a per il nostro agroalimentare. Cosa anche questa sacrosanta, che fa bene a tutti.