X

Vescovo Bresciani: “Di quali mattoni c’è bisogno per un ponte solido?”

DIOCESI – Pubblichiamo la quarta parte della lettera pastorale per l’anno 2018/2019 del Vescovo della Diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto, Mons. Carlo Bresciani.
Leggi le prime tre:
– “Dobbiamo tutti impegnarci ad essere costruttori di relazioni positive”
– “Dai sentimenti di Cristo agli atteggiamenti di Cristo”
– “Gesù, ponte tra Dio e l’uomo”

Paolo, costruttore di ponti, imitatore di Cristo,

«Riguardo a Cristo, a voi è stata data la grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, sostenendo la stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora» (Fil 1, 29-30).

Scrivendo ai Filippesi, Paolo è cosciente delle grandi virtù che sono presenti in quella comunità e, gioendone, le riconosce esplicitamente. Desidera però che essa cresca sempre più nella concordia e nell’umiltà. Infatti, non mancano in essa coloro che provocano tensioni e divisioni (cfr. 3, 2) e “si comportano da nemici della croce di Cristo” (3, 18). Li mette in guardia e li esorta “con le lacrime agli occhi” alla concordia e alla pace.

Paolo pensa il suo ministero come ministero di riconciliazione, non solo riferito al   sacramento; è la vita stessa dell’apostolo. Egli parte dal principio generale: “tutto viene da Dio” attraverso Cristo che è il ponte che Dio ha steso verso di noi per riconciliarci con Lui. Ma poi ne trae subito la conseguenza: Cristo “ha affidato a noi la parola della riconciliazione”, non una parola qualsiasi, ma “della riconciliazione”.

Questo ministero della riconciliazione è affidato al cristiano in quanto tale, perché chiamato ad essere imitatore di Cristo. È il ministero che Paolo pensa affidato a lui, ma dice anche “fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi” (3, 17).

Dio ci ha riconciliato perdonandoci, “non imputando agli uomini le loro colpe”. Si tratta di  una riconciliazione fatta di misericordia e di perdono, di comprensione empatica, data in modo unilaterale e gratuito. Tutti noi ci sentiamo abbracciati da questo atto di amore di Dio, per questo osiamo sempre di nuovo tornare a lui.

Da qui scaturisce il nostro modo di essere nel mondo e nella Chiesa: imitatori di Cristo nel costruire ponti di riconciliazione là dove le relazioni soffrono divisione, fratture e ferite. È certamente il compito del ministro ordinato, ma anche quello del marito nei confronti della moglie e viceversa, dei genitori nei confronti dei figli e viceversa, del datore di lavoro nei confronti dei dipendenti e viceversa, e così via. In questo sta la fecondità relazionale nella Chiesa e nel mondo del nostro essere in Cristo.

In Cristo siamo chiamati a un ministero di riconciliazione: significa che siamo chiamati a ricostruire relazioni infrante non solo con Dio, ma anche tra di noi. Questo ci fa comprendere perché al centro ci stia il mistero della croce: solo accettando la croce Gesù riconcilia a sé noi e il mondo. Per questo noi siamo annunciatori di Cristo crocifisso ed è per questo che san Paolo può dire “sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1, 24). Siamo chiamati a una attività ricostruttiva che deve rimettere a posto un mondo spezzato, ricucire un legame spezzato, una relazione logorata o venuta meno.

Essere costruttori e ricostruttori di relazioni è un ministero difficile, perché non si tratta di entrare in relazioni entusiaste come quella che vivono due giovani il giorno delle nozze, ma della fatica di ricostruire un matrimonio incrinato o spezzato, una amicizia tradita, una relazione padre-figlio interrotta … è qui che si manifesta la fecondità del portare la croce con Cristo.

Essere ricostruttori di ponti relazionali suppone, quindi, fratture e tensioni da superare, provocate talora anche da quella cattiveria che scaturisce dal cuore dell’uomo, e che crea situazioni a volte sedimentate a lungo e un po’ incancrenite: quelle che vengono chiamate strutture di peccato e che logorano il tessuto umano delle famiglie e delle comunità, rendendole preda di ambizioni, di egoismi, di orgoglio e di vanità, di oscurità morali e religiose, quando non cariche addirittura di odio. Si tratta di superare fiumi impetuosi che rischiano di travolgere tutto. Ma “tutto posso in Colui che mi dà la forza” (Fil 4, 13): qui sta il segreto di Paolo.

Come sempre abbiamo a che fare con la fragilità umana (e talora con la cattiveria umana). Per questo è molto difficile, pesante: san Paolo parla di sofferenza e di lotta. Per questo siamo tentati da stanchezza e da scoraggiamento, talora proviamo anche un senso di inutilità. Si diventa così davvero imitatori di Cristo che esperimenta l’apparente fallimento della croce.

Nel migliore dei casi, la ricostruzione dei ponti crollati è un processo lento che richiede, oltre che tempo, una riconciliazione con se stessi, con la propria sorte, con la propria salute, con i propri difetti, con il proprio ambiente, con la propria famiglia, con la società, tra uomo e donna…

San Paolo non è un illuso, non dice che tutto va bene, che tutto è facile, ma che, anche se le cose non vanno come sarebbe auspicabile, c’è una speranza di futuro credibile se ci si lascia riconciliare con Dio, con le persone che ci circondano, con il nostro lavoro, con le nostre paranoie, con tutto ciò che detestiamo dentro di noi. Egli cerca di capire le profondità del cuore umano e il guazzabuglio che c’è in esso, le sue sofferenze, le sue ignoranze, le sue resistenze e cerca di entrarvi con empatia e misericordia per far fare qualche passo in più alla sua comunità e alle persone che la compongono. Piccoli passi, forse, ma che incitano a fare di più, a credere alla possibilità di fare di più, perché, nonostante tutto, si è sempre in grado di fare qualche passo in più e questo non è approvare ciò che manca ancora, ma è semplicemente vivere.

È questo un vero ministero di santità cristiana affidato a ciascuno di noi, fatto non di lamentosità per relazioni infrante o mancate, ma di amore e di compassione.

Per non farsi travolgere occorrono sponde salde su cui appoggiare le arcate del ponte: la prima sponda è il nostro radicamento in Cristo (‘conquistato da Cristo Gesù’: Fil 3, 12; “per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno”: Fil 1,21; “non vivo più io, ma Cristo vive in me”: Gal 2, 20) che ci dà la certezza di un sicuro ancoraggio che non verrà mai meno; la seconda sponda è quella fiducia fondamentale nell’essere umano che ha portato Dio a lanciare in Gesù un ponte verso di noi. In tal modo ci ha permesso di poter essere creature nuove nella sua resurrezione. È appoggiando su queste due sponde che san Paolo diventa con Cristo costruttore di ponti umani tra i popoli e dentro le comunità cristiane che ha fondato.

Tutti siamo chiamati a gettare ponti relazionali verso i fratelli: è un servizio di autentica carità alla ricostruzione della personalità soggettiva e collettiva.

Non basta la chiave di volta e le due sponde sicure. Di quali mattoni c’è bisogno per un ponte solido?

Redazione: