RIPATRANSONE – Con quella gamba irrigidita che gli faceva da battistrada, lo incontravi dappertutto dove ci fosse bisogno di un prete. Un prete, si, perché don Antonio Fazzini fu principalmente un prete, alla maniera di don Milani, del quale mi inviò copia delle “Lettere ad una professoressa” quando, giovane insegnante, ero preso da troppo formalismo. Prete scomodo fu don Antonio, perché agli interrogativi della società, non si rifugiava dietro paraventi precostituiti, ma tentava di capire, di colloquiare, di aiutare più che giudicare. “L’accoglienza” era il suo stemma,,non si negava a nessuno. Missionario per vocazione, la malattia gli impedì di soddisfare questa sua grande aspirazione. Di don Antonio colpivano subito la coerenza e l’onestà ed inoltre un amore, tradotto in scelta totale verso Gesù nella dimensione del Vangelo. Tutte le sue azioni le raffrontava con le parole di Gesù e le sosteneva con quella serenità ed immediatezza che derivavano dalla sua anima semplice non disposta a compromessi o a linguaggi ambigui o di comoda acquiescenza.
Accettò i limiti che gli vennero dai suoi Superiori, ma dotato com’era di particolare carisma, non si rassegnò ad un quieto vivere di don abbondiana memoria, ma come il lievito evangelico, riuscì nella sua crescita spirituale a coinvolgere tutta la “massa che gli veniva a contatto.
Assegnato come cappellano alla parrocchia di S.Benedetto Martire, subito dopo la grande guerra, la sua prima opzione fu quella dei poveri e specialmente dei ragazzi poveri.
Con don Francesco Traini, abate parroco, fu l’animatore della “mensa dei poveri“, dove poté manifestare grandi capacità organizzative. Alla mensa fece seguire un “doposcuola” frequentato specialmente dai figli dei funai e dei marinai. Egli accoglieva tutti senza distinzioni e la sua attenzione era maggiore là dove dietro al ragazzo ravvisava una realtà socialmente più debole.
Mostrò un “carisma” particolare nel suo apostolato tra i ragazzi e i giovani. Si circondò di centinaia e centinaia di questi in tutti i luoghi dove fu chiamato a svolgere il suo apostolato, interessandoli e impegnandoli in tutti i modi e con una meravigliosa capacità inventiva. Organizzò numerosissime “campi-scuola” e trovò congeniali le teorie di Baden-Powell e vide nello “scautismo” un nuovo modo di operare per la crescita spirituale, intellettiva e fisica dei ragazzi. Così quando fu mandato come cappellano presso la parrocchia San Giovanni Battista di Grottammare ed infine in quella di San Michele Arcangelo di Ripatransone.
In questa città la nostra frequenza si poteva dire giornaliera presso il circolo delle Acli che si andava ricostituendo e dove lo volemmo Assistente ecclesiastico. Nei locali sottostanti organizzò un centro d’incontro per i giovani dal significativo nome : “La barcaccia” frequentatissimo, rimpianto dai tanti che vi passarono gli anni più belli della giovinezza.
Gli stessi che vogliono far memoria di don Antonio sabato 1 Dicembre con una Santa Messa nella chiesa di S.Rocco alle ore 17,30 nel Centenario della sua nascita.
Che significa fare memoria?
Oggi è un pullulare di “memorie” quasi a tacitare la coscienza storica. Certo, quando un esercizio di memoria è introdotto per legge c’è il pericolo che esso provochi una reazione opposta, di distacco, perché sentito come un atto dovuto, artificiale, e comunque pericolosamente estraneo. Sono cerimonie dove abbonda la retorica, nei gesti e nei discorsi: oggi sarebbe necessario lavorare di più sull’educazione alla memoria presso le giovani generazioni.
Ben altro significato ha la memoria per un cristiano. Si fa memoria nel gesto eucaristico del pane e del vino in cui scorgiamo la verità di Dio, che è amore, la verità di Gesù, che è dono, ma anche la verità di noi stessi e la via che dobbiamo percorrere. Fare memoria esprime e realizza in noi la condivisione dello stesso destino di Gesù, morto, risorto e asceso al cielo e per questo vivo e presente anche oggi. È consapevolezza di Comunione: la Comunione dei Santi. È “l’uomo nuovo” di cui don Antonio scriveva in una delle sue ultime lettere ai Giovani dell’Istituto Magistrale dove insegnava religione “ quello visto nel mistero pasquale di Gesù, a Lui Unito nel battesimo, che è superamento del male, della morte, e resurrezione nella vita nuova del Cristo glorificato”.
Ci sarebbe ancora molto da scrivere su le attività pro Missione, in particolare sui “Campi estivi”, Emmaus ecc. voglio soffermarmi su l’ultimo suo insegnamento: l’accettazione serena della morte. Per un uomo di azione come Lui, fu duro accettare l’interruzione di tanti progetti. Quando si rese conto del male inesorabile mi disse. “Devo incominciare a “ruminare”; era il suo modo di esprimere un atteggiamento di pazienza, di ponderazione, di attenzione e di scavo. Un termine che aveva appreso dai Padri della spiritualità cristiana. E fu un “ruminare” lungo che lo consumò nel corpo, ma che gli rese agile e quasi voglioso il ritorno nella Casa del Padre. La serenità di quella morte fu cantata dai suoi giovani scout intorno alla sua bara. Un canto d’addio struggente che ancora portiamo nel cuore. La morte di don Antonio fu, per dirla con le parole del poeta, padre Turoldo “ la bella morte all’antica, quel tramontare sereno dei giorni, quel salutarci come in attesa di un altro incontro più festoso; avvenne dentro quella serenità biblica del patriarca che canta: “ Ora lascia, Signore” che il tuo servo se ne vada in pace” dopo quel suo lungo migrare di anni.
Giuseppe
Un vero esempio di grande apostolato. Sempre vicino a chi aveva bisogno. Il suo sorriso è impresso nella memoria di tutti quelli che hanno avuto la fortuna di averlo conosciuto