Nel corso del 2017 i conflitti nel mondo sono stati 378, tra cui la maggioranza dimenticati. Di questi, 20 sono guerre ad elevata intensità che coinvolgono 15 Paesi. Negli ultimi anni si è però verificato un decremento del 7,6% dei conflitti: erano 409 nel 2014. Eppure tra la popolazione italiana c’è una sorta di amnesia (o ignoranza?) piuttosto elevata sull’esistenza di tutte queste situazioni drammatiche. È quanto emerge dalla sesta edizione del rapporto di Caritas Italiana sui conflitti dimenticati nel mondo, pubblicata dal Mulino, con la collaborazione di Famiglia Cristiana, Avvenire e ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur). Il Rapporto è stato presentato oggi a Roma, in occasione del 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. Il focus dell’edizione 2018 è su armi e armamenti: la produzione il commercio delle armi; il loro peso nel determinare i conflitti; il valore e il significato culturale delle armi nella cultura contemporanea, in particolare riguardo al mondo della comunicazione e della stampa; il grado di consapevolezza dei giovani e degli adulti.
Più diffuse le “crisi violente”: 186 situazioni, il 49,2%. Il tipo di conflitto più diffuso nel mondo non è la guerra ad alta intensità, ma la “crisi violenta”: 186 situazioni, pari al 49,2% del totale dei conflitti mondiali. Sono soprattutto in Asia e Oceania (59 situazioni), e in Africa sub-sahariana, con 48 crisi. In seconda posizione si collocano le “crisi non violente”: 81 situazioni, pari al 21,4% di tutti i conflitti, seguiti a brevissima distanza dalle “dispute” (75 situazioni, pari al 19,8% del totale dei conflitti).
Le guerre sono state 36, divise al loro interno in “guerre limitate” (16 guerre) e “guerre” vere e proprie in 20 fronti di conflitto, in riferimento a 15 Paesi coinvolti.
“Il numero di guerre ad elevata intensità nel 2017 non coincide con il numero di Paesi in guerra – precisa Walter Nanni, responsabile dell’Ufficio studi di Caritas italiana -, dato che presso uno stesso Paese possono essere presenti più fronti di guerra. Si pensi ai casi della Siria (3 diversi fronti di conflitto) e di Nigeria, Sud-Sudan e Repubblica Democratica del Congo Sudan (con due distinti fronti di guerra per ciascun Paese)”. Secondo il database dell’Heidelberg Institute
tre guerre hanno visto un deciso incremento nel livello di violenza e conflittualità: Filippine e Myanmar e Corno d’Africa (Etiopia).
“Il Conflict barometer – aggiunge Nanni – segnala che i cambiamenti d’intensità di un conflitto in senso peggiorativo sono in aumento rispetto agli anni precedenti: nel corso del 2017 sono stati sette i conflitti che hanno conosciuto una escalation, trasformandosi in guerre ad alta intensità (quattro di questi nella sola Africa sub-sahariana)”. Il decremento più deciso si è registrato invece nelle “dispute”, ossia quelle situazioni di conflitto che non sfociano in episodi di violenza armata: dal 2014 al 2017 tali fenomeni sono, infatti, diminuiti di 22 unità. Anche le “crisi non violente” e le “guerre limitate” sono diminuite (-8 situazioni, in entrambi i casi). Gli unici casi di aumento si registrano nel caso delle “crisi violente” (+6 conflitti) e delle “guerre (+1). Adottando una prospettiva storica più ampia,
le “crisi violente” sono però aumentate in modo ancora più pronunciato: dalle 148 situazioni del 2011 si è, infatti, passati alle 186 situazioni del 2017 (+25,7%).
Armi, metà degli italiani chiede di limitare la produzione.Il volume riporta anche i risultati di un sondaggio demoscopico Swg sulla popolazione italiana. Metà degli intervistati (60% tra i giovani), sarebbe favorevole a limitare la produzione italiana di armi, evitando soprattutto di esportare armi laddove c’è guerra, mentre poco meno di un terzo ritiene che si tratti di un tipo di industria che andrebbe soppressa e riconvertita in altri tipi di produzione. Due terzi degli intervistati ridurrebbe anche la vendita di armi a persone o enti privati.
Sul polo opposto, un segmento di popolazione, pari a poco più di un quinto, ritiene invece giusto produrre armi e lasciarne inalterata la vendita.
Dalla rilevazione tra gli studenti risulta inoltre che la grande maggioranza dei ragazzi considera la guerra come un “elemento evitabile”, da superare attraverso il progresso culturale. Inoltre
solo il 13% non ritiene giusto accogliere le persone che lasciano la propria terra, in fuga dalla guerra.
Il 24% degli italiani non ricorda nemmeno una guerra. Il livello generale di “amnesia” è però piuttosto elevato. In riferimento agli ultimi 5 anni, il 14% del campione non ricorda neanche un attentato terroristico (10% tra i giovani). Il 24% degli italiani non ricorda neanche una guerra (29% dei giovani). Il conflitto più ricordato è quello siriano, col 52% del campione totale ma, ad eccezione della Libia,
nessuna guerra del continente africano è ricordata da più del 3% degli intervistati.
Poco meno di un terzo del campione accetta la guerra in ogni caso; due terzi sono comunque contrari, oppure lo sono salvo decisioni delle Nazioni Unite. In 15 anni è scesa dal 75 al 59% la percentuale di chi è d’accordo sul fatto che solo l’Onu possa decidere su eventuali interventi militari, mentre cambia l’orientamento sulla partecipazione dell’Italia alle missioni militari: nel 2005 il 70% era favorevole; nel 2013 si era scesi al minimo storico del 32%, ora si assiste a una risalita al 45%.
Gli studenti delle medie inferiori: il 39% non sa indicare neanche una guerra in corso. Nel Rapporto sono poi riportati i risultati di un secondo studio condotto su un campione di 1.782 studenti, frequentanti 58 classi di terza media inferiore, presso 45 istituti scolastici, in tutto il territorio nazionale. Il 39,3% dei ragazzi non è in grado di indicare neanche una guerra degli ultimi cinque anni.
Gli studenti che hanno invece fornito delle risposte “esatte” sono pari al 44,4% del campione.
Le risposte di tipo misto, in cui convivono elementi di verità con indicazioni sbagliate, sono pari al 13,2%. Nel caso degli attentati terroristici la quota di oblio è inferiore, scendendo a quota 11,8%. La metà degli studenti intervistati ha dichiarato di conoscere la Dichiarazione universale dei diritti umani, di cui ricorre nel 2018 il 70° anniversario, mentre una quota importante di ragazzi, pari al 32,4%, non è sicuro di conoscerla.
La grande maggioranza dei ragazzi considera la guerra come un “elemento evitabile”, da superare attraverso il progresso culturale.
Ma un ragazzo su cinque ritiene che la guerra è un elemento inevitabile, legato indissolubilmente alla natura dell’uomo.
L’accoglienza dei migranti. La maggioranza degli studenti (61,3%) ritiene giusto accogliere, a certe condizioni, le persone che fuggono dalla propria terra, in fuga dalla guerra. Il 28,2% ritiene in ogni caso giusta l’accoglienza, a prescindere dalle capacità ricettive dei singoli Paesi.
Solo un ragazzo su dieci non ritiene giusto, in alcun caso, accogliere le persone in fuga dalla guerra.
Secondo i ragazzi, la guerra si previene mediante il dialogo e il rispetto dei diritti umani (62,8% dei ragazzi intervistati). Segue la prospettiva di intervenire sula dimensione economica e commerciale (51,9%). Il ruolo di controllo e vigilanza, che non esclude l’opzione militare, trova d’accordo un numero minore di ragazzi (34,3% del campione).
Gli scout, stesse competenze ma più sensibili ai valori. Nel rapporto sono riportati i risultati di un terzo studio, condotto su un campione di ragazzi impegnati nello scautismo Agesci. I giovani scout evidenziano livelli simili di competenza rispetto ai coetanei ma un maggior livello di sensibilità al tema dei valori e dei comportamenti concreti: in media
il 61,9% degli scout evidenzia un alto livello di sensibilità e di coerenza etica sui gradi temi della guerra e della pace, dell’accoglienza e della solidarietà (contro il 55%).
Sulla disponibilità ad accogliere nel nostro Paese, in modo incondizionato, i profughi e i richiedenti asilo gli scout evidenziano un maggiore livello di disponibilità e apertura: il 43,5% di loro si dichiara a favore di questo tipo di apertura (28,2% tra i ragazzi delle scuole medie).
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