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Italia, bilancio di fine 2018

Stefano De Martis

Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos Italia, è uno dei più autorevoli analisti della società italiana, che scandaglia costantemente con le sue rilevazioni. Un interlocutore privilegiato per tentare un primo bilancio del 2018 e per gettare uno sguardo sulle prospettive del nuovo anno.

Al di là delle singole rilevazioni, dall’insieme degli elementi raccolti nella sua attività è possibile individuare una nota dominante nell’opinione pubblica italiana in questa fine del 2018?
In realtà non c’è esattamente una tendenza univoca. In sostanza, possiamo dire che il clima del paese sembra essere dominato da una sensazione di incertezza e di precarietà. Da un lato le attese del consolidarsi della ripresa sembrano essere frustrate, dall’altro ci si attendono cambiamenti positivi dal nuovo governo. Insomma una situazione confusa, altalenante, con continui passaggi da un debole ottimismo a visioni più cupe.

Che cos’è cambiato rispetto al primo periodo dell’anno? C’è stato uno sviluppo progressivo dei temi al centro del dibattito e degli interessi dell’opinione pubblica o ci sono stati anche degli scarti, delle correzioni di rotta, dei veri e propri ripensamenti?
Al centro delle preoccupazioni dei nostri connazionali rimane la situazione economica e occupazionale che, per quanto in calo, mantiene saldamente la primissima posizione. Il tema dei migranti è diventato invece la seconda preoccupazione degli italiani, con una crescita netta nel corso dell’ultimo anno, pur se a fronte di un calo degli sbarchi. La campagna elettorale, la pressione mediatica, i social, hanno contribuito a questo fenomeno. Rimane molto rilevante la critica alla cattiva politica, che si colloca al terzo posto delle preoccupazioni insieme al tema del welfare. Mi sembra che in sostanza i temi del dibattito siano vicini ai temi che preoccupano i nostri connazionali.

Prevale il tema della protezione sociale, molto cavalcata dalla compagine di governo.

Rispetto agli scarti, alcuni elementi sono evidenti, in particolare i passi indietro del Movimento 5stelle sulle grandi opere. L’alleanza con la Lega sta mettendo in difficoltà questa forza.

I principali indicatori statistici convergono nel descrivere una frenata dell’economia che secondo alcuni osservatori prelude a una nuova recessione. Si tratta ovviamente di processi di grande complessità e collegati anche al contesto internazionale. A suo avviso in che misura la psicologia e i comportamenti collettivi incidono in questa dinamica?
L’insediamento del governo Conte provoca un veloce cambiamento di clima tra gli elettori. Da giugno di quest’anno una serie di indicatori segnano un netto miglioramento. Ci sono state, e rimangono, grandi attese. Tuttavia gli italiani percepiscono anche un peggioramento delle condizioni del Paese e ridimensionano le aspettative. Luci e ombre, come dicevo in apertura. I segnali strutturali indicano però una crescita della propensione al risparmio. È naturalmente un dato da consolidare, ma accompagnato alle indicazioni di ristagno dei consumi, rischia di segnare un orientamento che potrebbe favorire i segnali recessivi che si cominciano a intravedere per l’Italia.

Dopo anni di migliore disposizione verso i consumi infatti, per la prima volta osserviamo un diffuso rallentamento.

L’italiano torna ad essere più attento, e ciò riguarda soprattutto i beni che più erano cresciuti nel recente passato: in primis gli investimenti semidurevoli e poi alcuni beni di prima necessità, quali alimentari e casalinghi.

L’anno prossimo si voterà per il Parlamento europeo. Al momento qual è l’atteggiamento prevalente degli italiani nei confronti dell’Europa nelle sue diverse dimensioni e articolazioni (istituzionali, politiche, economiche, culturali)?
Rispetto all’Europa negli italiani prevale il principio di precauzione. Pur con un calo di fiducia molto rilevante, dovuto alla valutazione negativa dei principi di austerità che hanno improntato le politiche della Commissione da un lato, e dall’altro dall’idea che l’Europa abbia abbandonato l’Italia di fronte ai flussi migratori, gli italiani non pensano però di poter uscire né dall’unione monetaria né da quella politica. È chiaro a tutti che i rischi sarebbero troppo rilevanti.

Tuttavia è probabile che alle elezioni europee siano favorite le forze euroscettiche, per quanto forse non nella misura registrata attualmente dai sondaggi per le elezioni politiche.

Infine è molto difficile per gli italiani (ma non solo per loro) distinguere le diverse articolazioni dell’Europa. Il giudizio è generico e riguarda il governo europeo nel suo insieme.

L’ultimo rapporto annuale del Censis ha descritto il diffondersi di un “cattivismo” che si esprime anche nella ricerca di un capro espiatorio. Dal suo punto di osservazione trova riscontri a questa analisi?
In parte certamente c’è una corrente di fondo caratterizzata da livore, rancore, chiusura. L’immigrazione ne è l’elemento più visibile, poiché assume appunto il ruolo del capro espiatorio, su cui si concentrano le colpe di una globalizzazione mal gestita che ha impoverito la nazione e in particolare il ceto medio. Inoltre bisogna tenere conto che

il dibattito politico, e l’affermazione di forze che chiamiamo “populiste”, hanno alcuni effetti profondi che cambiano anche i sentimenti di fondo.

Prima di tutto la creazione di nemici, uno dei temi classici della reazione populista agli attacchi esterni. Questo semplifica, banalizza e estremizza. Poi appunto la semplificazione, l’idea che ci siano risposte semplici a problemi complessi. Anche questo favorisce un impoverimento e un incattivimento del dibattito. Ma il Paese non è solo questo, per quanto questo sia il sentimento dominante. Basti pensare a città come Milano che prospettano modelli e modalità differenti rispetto al mainstream. O alla reazione delle forze produttive che mirano a mantenere un passo di crescita e sviluppo importanti. E magari sono elettori di forze attualmente al governo. Direi che la lettura dei fenomeni in atto nel nostro paese può essere fatta a più livelli.

Nelle correnti dell’opinione pubblica che lei studia costantemente quali sono gli elementi che il prossimo anno potrebbero sorprenderci in positivo? Le cronache ci presentano, per esempio, alcuni segnali di un nuovo attivismo civico dal basso.
Concordo. Come spesso accade si tratta di segnali deboli, ma apprezzabili. Gli aspetti più evidenti sono ad esempio la manifestazione SìTav di Torino, o le reazioni dei ceti produttivi di cui parlavo prima. Ma il tessuto di relazioni e di solidarietà è davvero più ampio e vasto di quello che appare. Non siamo solo chiusi nelle nostre paure o nel livore dei social. Le cose che dicevo prima hanno proprio questo senso. Ci sono condizioni di reazione che non sono solo collegate ai riferimenti politici. C’è un pezzo di paese che si muove per reagire, trasversalmente, alla crisi e al rischio di tornare indietro. Ci sono anche le condizioni perché questo pezzo faccia sistema. Il rischio però è di lasciare indietro aree che non sono in grado di tenere il passo. Per questo è necessario che la politica si faccia carico del problema. Magari in maniera più organica e prospettica di quanto emerge dalla manovra.

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