Silvia Rossetti

Chiudiamo l’anno con una consapevolezza che riguarda i giovani, ma non solo.
Continua a farsi sempre più marcata la dicotomia tra realtà e mondo virtuale e la realtà, “terra desolata” e inascoltata, diventa rabbiosa e violenta. Talmente rabbiosa che in alcuni momenti ci esplode addosso provocandoci turbamento, senza però riuscire a farsi capire davvero.
Si parla di “atomizzazione” della società. Oggi, grazie all’ausilio delle tecnologie, siamo in grado di costruire un sistema di particelle che gravitano attorno a noi e ai nostri bisogni/interessi più urgenti. Gli algoritmi rispondono alle nostre domande, ancor prima che si abbia il tempo di esplicitarle. Ragionano per similitudine e affinità, ci fanno incontrare chi è come noi e confermano continuamente noi stessi, in un infinito e chiuso sistema di specchi. Qualcuno per il web ha usato la metafora della “vasca da bagno”, una sorta di zona di comfort che si “aggrega” in un brevissimo spazio di tempo attorno all’utente e lo immerge in un tepore di cose uguali a lui.
Ma l’effetto “vasca da bagno”, alla lunga, conduce all’isolamento e allo spaesamento. Sarebbe importante staccare invece i polpastrelli dal touchscreen e poggiarli sulla ruvida realtà, per intervenire in essa e non solo visualizzarla. Uscendo dalla “vasca” incontreremmo l’altro da noi, l’altro uguale e l’altro diverso.
La sfida educativa è contrapporre a questo pericoloso processo di atomizzazione un percorso alternativo, conoscitivo e inclusivo. Ad esempio, per i giovani le attività di volontariato continuano a essere un bel banco di prova di contatto concreto con la realtà. I numeri, però, sono ancora poco significativi. I ragazzi fra i 14 e i 29 anni, che si dedicano all’impegno sociale, sono in Italia circa un milione (stime Istat 2016).
Peccato, perché l’esperienza del volontariato ha una dimensione “trasformativa”, di cambiamento rigenerativo del contesto. Le associazioni di volontariato, inoltre, sono luoghi d’incontro fra le generazioni. Opportunità preziosa in un’epoca in cui si marca sempre più la distanza tra padri e figli.
Più che un fine, il volontariato è un mezzo di esplorazione e conoscenza della realtà, un rispecchiamento non più unilaterale. Offre la dimensione del gruppo, che finisce per contare più del singolo individuo. Il gruppo sostiene e alimenta la fiducia, qualcosa di cui si ha enorme bisogno in questo momento storico. E soprattutto è una risposta dinamica, empirica, cercata e costruttiva a una domanda della realtà.
Permette di andare oltre le frasi fatte: “la diversità è una ricchezza” o “la prossimità è bella”. Le svuota di retorica, facendole scontrare col paradosso e l’antitesi. Permette di rintracciare l’umanità nella diversità e nella prossimità e di trovare conforto a quel senso di universale solitudine che tarla il mondo.
In sostanza, il volontariato offre ai giovani la competenza del “donarsi”. “Donare è un’arte che è sempre stata difficile – scrive Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose -: l’essere umano ne è capace perché è capace di rapporto con l’altro, ma resta vero che questo «donare se stessi» – perché di questo si tratta, non solo di dare ciò che si ha, ciò che si possiede, ma di dare ciò che si è – richiede una convinzione profonda nei confronti dell’altro. Ma il dono all’altro – parola, gesto, dedizione, cura, presenza – è possibile solo quando si decide la prossimità, il farsi vicino all’altro, il coinvolgersi nella sua vita, il voler assumere una relazione con l’altro. Allora, ciò che era quasi impossibile e comunque difficile, faticoso, diviene quasi naturale perché c’è in noi, nelle nostre profondità la capacità del bene: questa è risvegliata, se non generata, proprio dalla prossimità, quando cessa l’astrazione, la distanza, e nasce la relazione”.

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