“Le ricerche suggeriscono che l’acquisizione di maggiori competenze digitali da parte dei ragazzi non è una condizione di per sé sufficiente a eliminare completamente i rischi online. Ci sono livelli della questione che pertengono agli operatori del web, attraverso il design delle piattaforme, e ai regolatori dei sistemi mediali, in prospettiva sia nazionale che sovrannazionale. E ci sono altri livelli in cui la responsabilità è condivisa tra tutti gli utenti, perché riguarda la capacità di ciascuno di abitare la rete secondo forme e stili compatibili con l’apertura di spazi di reale convivenza online”. Lo spiega Piermarco Aroldi, professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università Cattolica e direttore di OssCom – Centro di ricerca sui media e la comunicazione, in occasione del Safer Internet Day 2019.
“Nuova alleanza tra scuola e famiglia” è il tema scelto per l’Italia. Un progetto ambizioso per due soggetti che spesso faticano a parlare tra loro?
È certamente un progetto ambizioso e, nello stesso tempo, un progetto parziale rispetto alle risposte da dare ai problemi della sicurezza online. È ambizioso perché rilancia l’idea di una comunità educante adulta capace di trovare un linguaggio comune, valori condivisi e sintonia d’azione nel reciproco rispetto dei ruoli e dei compiti di ciascuno. In questo senso, oltre che ambizioso è doveroso perché rappresenta una condizione preliminare affinché i ragazzi possano trovare intorno a loro adulti di riferimento credibili.
Per la sicurezza online questa alleanza sarebbe certamente una meta importante, a patto che scuola e famiglia condividano un comune sentire nei confronti delle nuove tecnologie come opportunità prima ancora che come rischio;
un’alleanza su queste basi potrebbe essere un elemento di rafforzamento delle competenze digitali dei bambini e dei ragazzi, cosa che certamente potrebbe tradursi in una maggiore sicurezza della loro esperienza online.
Furto di identità, sexting, cyberbullismo, grooming sono soltanto alcuni dei rischi che la rete riserva ai giovani (e non solo). Chi può suggerire i comportamenti adatti per essere sicuri online? Anche i genitori spesso si trovano nelle stesse condizioni dei ragazzi?
Spesso i genitori non hanno competenze, tempo, o interesse per affiancare i ragazzi e suggerire comportamenti online più sicuri; ciononostante, a loro spetta certamente un primo compito di alfabetizzazione digitale anche in materia di sicurezza, se non altro perché tale alfabetizzazione comincia sempre più precocemente, da quando proprio i genitori danno in mano a figli di pochi anni o addirittura pochi mesi i loro smartphone; in secondo luogo è compito della scuola, che però non sembra aver ancora trovato le modalità di una integrazione strutturale di tali competenze né all’interno dei curricula né in riferimento alle pratiche d’uso dei device digitali in classe. Ma probabilmente, come diverse ricerche suggeriscono, sono soprattutto i pari, cioè il gruppo dei coetanei, a costituire una risorsa preziosa anche se spesso poco sfruttata.
Diversi progetti di Media Education (per esempio molti di quelli proposti dal Cremit dell’Università Cattolica) valorizzano proprio la strategia della “peer education”, formando giovani in grado di agire come mentori per i propri coetanei.
Mi permetto di sottolineare, poi, l’importanza degli educatori dei contesti informali (doposcuola, oratori, CAG etc.), che sono spesso più vicini per età e per familiarità con le culture digitali di quanto non possano essere insegnanti e genitori, e che più facilmente possono guadagnare la fiducia degli adolescenti anche su questo terreno.
Il numero delle vittime di cyberbullismo continua a crescere?
In realtà, almeno per quanto riguarda l’Italia, i dati di EU Kids Online più recenti (fine 2017/report giugno 2018) mostrano una situazione abbastanza stabile nel tempo (almeno a partire dalle prime rilevazioni del 2010) per quanto riguarda la diffusione del fenomeno, che si attesta intorno al 10%; varia di poco la distribuzione del fenomeno sulle diverse fasce d’età, con punte del 12% per la fascia d’età 11-12 anni per quanto riguarda le vittime e del 16% per la fascia dei 13-14 anni per quanto riguarda gli aggressori. Ciò ovviamente non significa che l’attenzione al fenomeno non sia giustificata o necessaria, anche perché il danno subito dalle vittime è più grave di quello riscontrato a fronte di altri rischi più diffusi; direi piuttosto che siamo di fronte a un fenomeno consolidato, almeno nelle sue forme più riconosciute. Non bisogna però dimenticare che l’innovazione delle piattaforme digitali e dei comportamenti online costituisce un elemento di trasformazione continua anche dei fenomeni più consolidati come questo. Per questo la ricerca è sempre necessaria.
Il 25% dei ragazzi di 9-17 anni non ha parlato con nessuno delle esperienze su internet che lo hanno turbato. Perché?
Possiamo immaginare diverse ragioni: talvolta si tratta di esperienze connesse a comportamenti trasgressivi o rischiosi, che non si vogliono condividere con gli adulti; talvolta manca la confidenza e la fiducia necessari per confrontarsi su questi temi; talvolta si dà per scontato che non serva a nulla parlarne; altre volte ancora il silenzio fa parte della strategia di ignorare il problema; qualche volta è segno di una grande solitudine. Qui però è forse opportuno leggere il dato dalla parte del “bicchiere mezzo pieno”: vuol dire che
la maggioranza dei ragazzi sa a chi rivolgersi e ne parla con qualcuno che può aiutarli:
gli amici (nel 47% dei casi) e i genitori (38% dei casi) sono le principali fonti di sostegno a cui i ragazzi si rivolgono nel caso di esperienze negative su internet. Più problematico è, per esempio, che solo il 3% degli intervistati affermi di essersi rivolto a un insegnante o a un altro adulto significativo.
La risposta passiva ai rischi di internet, come ignorare il problema e sperare che si risolva da solo, è la principale strategia adottata dai giovani. Eppure non è così che possono risolversi i problemi…
Ignorare i problemi non è mai il modo migliore per risolverli. Nel caso di internet, dove rischi e opportunità crescono insieme, non è nemmeno possibile adottare politiche di eliminazione dei rischi che potrebbero comportare, al medesimo tempo, una riduzione delle opportunità. Una certa dose di rischio nell’esperienza tanto online quanto offline è ovviamente ineliminabile e per certi versi necessaria per formare competenze e comportamenti liberi e responsabili, dentro e fuori dalla rete. Forse non si tratta nemmeno di concentrarsi solo sulle strategie dei ragazzi, come se si trattasse di
“addestrare” i singoli a cavarsela individualmente in un ambiente rischioso, ma di immaginare un approccio complessivo che coinvolga tutti gli stakeholder (famiglia, scuola, educazione informale, istituzioni pubbliche, operatori del web, piattaforme social, regolatori nazionali e sovrannazionali, brand che si rivolgono ai più giovani, media e informazione e, in prima fila, gli stessi ragazzi e ragazze che usano la rete) per un’internet “più sicura”.
Questo, in fondo, è il senso stesso del Safer Internet Day.