“Noi vescovi siamo molto preoccupati. Serve una soluzione di saggezza, per trovare una via d’uscita”. È l’appello al Sir da Haiti di mons. Joseph Gontrand Decoste, vescovo di Jérémie e segretario generale della Conferenza episcopale haitiana. Parole che fanno seguito al comunicato dei vescovi di qualche giorno fa, nel quale si parla di Paese “sull’orlo dell’abisso”. A partire dallo scorso 7 febbraio il Paese è bloccato, per le manifestazioni contro il Governo e in particolare contro il presidente della Repubblica Jovenel Moise. Le proteste sono nate in seguito alla decisione di aumentare il prezzo del carburante e all’emergere di uno scandalo nell’ambito del programma di sviluppo Petrocaribe, avviato dal Venezuela dell’allora presidente Hugo Chávez. Nel luglio scorso si è scoperto che politici dei precedenti governi si erano indebitamente appropriati dei fondi destinati alle fasce più deboli della popolazione. Da allora, a più riprese, la gente è scesa in piazza, fino alle proteste degli ultimi dieci giorni, particolarmente intense, che hanno provocato diverse vittime, almeno sette, e decine di feriti. Nelle ultime ore i manifestanti hanno bruciato bandiere degli Stati Uniti, il Governo di Washington sta invitando i propri cittadini a lasciare Haiti, un gruppo di turisti canadesi è stato “recuperato” con l’elicottero. Nell’intero Paese i trasporti, sia pubblici che privati, sono interrotti.
“Serve una soluzione rapida”. “C’è una barricata con gente armata ogni cento metri, è tutto fermo. E la gente più povera non ha letteralmente più niente da mangiare”, spiega da Port-au-Prince, capitale di Haiti, Fiammetta Cappellini, referente nell’isola caraibica della Fondazione Avsi. Paradossalmente, pur essendo nate le proteste per protestare contro corruzione e squilibri in quello che è di gran lunga il Paese più povero del Continente americano, le barricate stanno danneggiando soprattutto i più poveri. Da giorni i servizi essenziali non sono garantiti, l’acqua inizia a scarseggiare e le Ong presenti nel Paese con vari progetti, nati soprattutto in seguito al terribile terremoto del 2010, non possono operare. “Non si può dire che i manifestanti, al di là che la loro partecipazione sia genuina o provocata dall’opposizione, non abbiano delle ragioni dalla loro parte. Ma
a prendere il sopravvento è stata la violenza, anche con episodi di delinquenza.
Il tessuto del Paese è fragilissimo, in una situazione come questa emergono le bande, i saccheggi, i vandalismi”, spiega Cappellini.
Insomma, è fondato il timore che lo stallo dovuto alla protesta possa portare a un’altra tragedia umanitaria.
“Non si può continuare così, serve una soluzione rapida”, afferma mons. Gontrand. Da qui l’appello alla “saggezza”, rivolto ai leader politici e in particolare al presidente Moise, che fin dall’inizio ha sottovalutato una situazione che rischia ora di travolgerlo. Da parte dei vescovi non manca, come è già accaduto altre volte nella storia di Haiti, la disponibilità a favorire il dialogo e la mediazione: “Come afferma Papa Francesco, come Chiesa dobbiamo sempre essere pronti ad accompagnare ogni processo di pace e dialogo che abbia come fine il bene comune e il miglioramento delle condizioni di vita del popolo haitiano”.
“Politici che saccheggiano il popolo”. Ma il segretario generale dell’Episcopato non rinuncia a una dura e disincantata analisi sulla situazione politica e sociale dell’isola caraibica: “Quello che sta accadendo parte da una seria protesta e da un profonda crisi di sfiducia nei confronti di leader incompetenti, di fronte a politici che hanno saccheggiato le risorse destinate al popolo, che vivono nel lusso mentre il popolo si dibatte nella miseria, privo di tutto: cibo, acqua potabile, servizi essenziali, sanità, scuola, strade…
È un sistema impunito durato troppo a lungo, gli squilibri si trascinano addirittura da secoli.
Certo, però, la protesta sta degenerando in violenza. Ripeto, bisogna fare in fretta”. Mons. Gontrand nota una debolezza che permane nella società haitiana: “Ci sono certamente tante persone oneste, che amano il loro Paese, ma non si impegnano, forse hanno paura”.
Mancanza di leadership. Intanto l’auspicata via d’uscita non appare a portata di mano, come spiega il gesuita padre Mareus Tousseliat, che lavora nell’ambito di “Fe y Alegria” l’organizzazione legata alla Compagnia di Gesù che opera in ambito educativo in numerosi paesi. “La gente è molto agitata, aspetta una parola dal presidente. Ma va detto che la classe politica non è all’altezza della situazione e che le persone non credono nel dialogo. A tutti i livelli si avverte una mancanza di leadership, anche nella società civile, anche tra i manifestanti”. Haiti si sta avvitando su se stesso e tutto è in stallo: “Neppure noi gesuiti possiamo operare, la scuole sono chiuse e pure gli uffici. Fe y Alegria gestisce cinque scuole.
Una ridottissima libertà d’azione esiste in questi giorni solo nel nord del Paese, dove vivo io, ma si tratta di casi isolati”.
Il rischio è che aumenti l’ondata migratoria, ingente già da anni. Continua padre Tousseliat, che ricorda l’attività del Servizi gesuita ai rifugiati al confine con la Repubblica Dominicana: “Molti entrano via terra nel Paese vicino, altri tentano la traversata via mare verso altre isole caraibiche, in particolare le Bahamas, altri ancora fuggono per via aerea. Le destinazioni principali sono Brasile, Cile, Usa, Canada”.
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