Doveva essere la giornata della liberazione o, quanto meno, la giornata della speranza, quella dell’arrivo in Venezuela dei sospirati aiuti internazionali. Un gesto caricato, da tutti gli attori in campo, da un grande valore simbolico. E’ finita con i camion degli aiuti incendiati sul ponte internazionale Simon Bolívar, che separa Colombia e Venezuela, da uomini con l’uniforme della Guardia nazionale boliviariana, fedele a Maduro, e con una repressione violentissima, sia alla frontiera con il Brasile, in particolare contro il popolo indigeno Pemón (con un bilancio ufficiale di 4 morti e ufficioso di circa 20), sia alla frontiera tra Colombia e Venezuela, con 285 feriti (37 in modo più grave). Maduro ha rotto le relazioni diplomatiche con la vicina Colombia. Durante la giornata di sabato 60 militari hanno disertato e giurato fedeltà a Juan Guaidó. Ma non è bastato, di fronte alla ferocia dell’Esercito e Guardia nazionale, secondo molti infarciti di mercenari cubani e paramilitari (ma nel caos attuale è ben difficile confermare la veridicità di molte affermazioni).
Così,
ora tutto il mondo si interroga e sono tanti i timori che la situazione possa precipitare.
Oggi a Bogotá si terrà un incontro del Gruppo di Lima, l’alleanza tra gli Stati americani che non hanno riconosciuto la presidenza di Maduro. La tensione è altissima e nessuna opzione è esclusa. “Che il regime sappia – ha detto Guaidó – che non rimarrò a braccia conserte di fronte al massacro che stanno realizzando nei nostri quartieri e villaggi. Oggi avete visto il peggior volto del regime. Il mondo lo ha visto per alcuni minuti, ma noi lo stiamo vivendo da anni”.
Scenario di grave incertezza. Padre Alfredo Infante, gesuita e direttore della rivista “Sic” del Centro Gumilla gestito dalla Compagnia di Gesù, commenta al Sir: “Sabato la reazione del regime è stata del tutto sproporzionata nell’uso della forza. Quanto accaduto mostra chiaramente il volto del Governo, che continua a rifiutarsi di vedere cosa pensa la maggioranza e le condizioni di povertà e difficoltà del popolo. Questo è un Governo capace di qualsiasi cosa per giustificare e mantenere le sue bugie. Noi, che viviamo nelle zone popolari sappiamo di vivere tra la vita e la morte. Sopravviviamo, non viviamo. E il Governo non vuole riconoscere questa realtà, negando il diritto all’alimentazione, alla salute, ai medicinali, usando la forza contro cittadini indifesi”.
Padre Infante prosegue: “Purtroppo
questo Governo, illegale, perché eletto al di fuori di quanto prevede la Costituzione, e illegittimo, perché non riconosciuto dalla grandissima parte della popolazione, ha rigettato tutte le proposte pacifiche e questa ci getta in uno scenario di grande e grave incertezza, perché prepara il terreno a un possibile intervento internazionale.
Non vedo positivamente questo scenario, perché purtroppo implicherebbe una situazione di guerra, che è sempre catastrofica, provoca la perdita di vite umane e porta con sé instabilità e una difficile governabilità. La via pacifica sarebbe quella di convincere Maduro a non portare il paese alla catastrofe. Io spero che in questi giorni cessi l’usurpazione, anche se non sono ottimista, hanno mostrato di essere disposti a qualsiasi cosa per restare aggrappati al potere, rinunciare al Governo per il bene comune presuppone una grandezza umana che chi sta al potere oggi non sta mostrando. Certo, la comunità internazionale continuerà a fare pressione”.
Il massacro dei pemónes. Se gli occhi del mondo erano puntati sulla frontiera colombiana, forse ancora più grave è la situazione ai confini con il Brasile. Una fonte Sir, da Santa Elena di Guairen, rivela il massacro dei pemónes, un popolo pacifico che fino a ieri non sapeva neppure cosa fosse una bomba lacrimogena: “E’ stato terribile! Ci sono molti morti, venti confermati, sono tanti per un popolo così piccolo, un centinaio di feriti, i carri armati cercavano di colpire la gente come si gioca alla playstation”.
La Chiesa resta vicina al suo popolo. Intanto la Chiesa venezuelana continua a restare accanto al suo popolo, come dimostrano alcuni gesti e alcune prese di posizione da parte di vescovi.
Mons. Felipe González, vescovo del vicariato apostolico del Caroní, ha accompagnato ieri gli indigeni del popolo Pemón, nella loro protesta per chiedere la fine della violenza e l’arrivo degli aiuti umanitari.
Ancora sabato, mons. Mario Moronta, vescovo di San Cristóbal (la diocesi frontaliera con la Colombia) e vicepresidente della Conferenza episcopale venezuelana, aveva rivolto un accorato appello audio alle forze armate e di polizia: “Il nostro messaggio non solo non è stato ascoltato, ma è stato messo da parte. Vogliamo essere solidali con coloro che si trovano alla frontiera. Facciamolo con spirito di convivenza pacifica. Desidero rivolgere nuovamente
un appello ai nostri fratelli della Forza armata nazionale, nelle sue varie componenti, perché agiscano in conformità alla Costituzione e alla legge.
È da condannare la quantità di feriti e vittime. Il sangue dei nostri fratelli chiede giustizia di fronte a Dio”.
Ieri l’altro vicepresidente della Cev, mons. Raul Biord, vescovo di La Guaira, ha scritto: “Quello che è accaduto alla frontiera è un crimine che grida al cielo. L’attacco e l’assassinio di civili disarmati da parte di bande armate e la distruzione di medicine e alimenti implica una grave responsabilità secondo il diritto internazionale, che prevede forti sanzioni”.