“L’ordine liberale era costituito da una dimensione internazionale gestita prevalentemente dagli Stati Uniti e dai loro principali alleati, che era deputata alla prevenzione e alla gestione delle principali crisi. Dall’altro lato, una serie di Stati erano inseriti all’interno di un contesto in cui sembrava che la transizione al mercato e alla democrazia fosse un processo inarrestabile. Oggi tutte e due le cose si sono arenate. L’ordine internazionale funziona sempre meno, prova ne è la difficoltà di gestire le crisi con l’esempio catastrofico della Siria. E le democrazie liberali stanno vivendo una crescente crisi di legittimità”. È l’analisi di Alessandro Colombo, docente di Relazioni internazionali all’Università degli Studi di Milano e direttore del Programma “Relazioni transatlantiche” all’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), a commento del Rapporto 2019 dell’Istituto sul tema “La fine di un mondo. La deriva dell’ordine liberale”.
Anche la centralità occidentale è in discussione?
È una crisi della capacità dell’Occidente di ergersi a modello. Mentre fino a qualche anno fa la sintesi di democrazia e mercato che veniva dai Paesi occidentali sembrava dovesse costituire un riferimento normativo per tutti gli altri, oggi molti Paesi non guardano più a questo modello come sicurezza di successo.
Quali soggetti politici saranno protagonisti dei prossimi anni?
I due Paesi che possono spostare gli equilibri sono gli Usa e la Cina. La continua crescita della tentazione americana verso il disimpegno può cambiare gli equilibri. Così come la Cina nel caso in cui la crescita dovesse continuare a questi ritmi, ma anche nel caso in cui dovesse andare in crisi. Questo sarebbe davvero un colpo mortale all’ordine liberale internazionale.
Come si è generato il “divorzio” tra gli Stati Uniti e l’ordine internazionale?
La crisi della politica estera americana e della capacità di dettare ordine a livello internazionale viene da molto prima di Trump. Se volessimo trovare una data simbolo è il 2003, con la decisione sciagurata di George W. Bush di invadere l’Iraq che ha avuto non solo il risultato di frantumare la regione mediorientale ma anche di mettere a rischio la credibilità e il prestigio degli Usa.
Trump non è il responsabile della crisi di politica estera, ma ha una peculiarità nuova. Mette apertamente in discussione, infatti, tutto quel tessuto di istituzioni e regole che gli Stati Uniti avevano creato e sui quali avevano costruito la propria egemonia.
Trump è convinto che per salvare l’egemonia americana gli Usa si debbano disimpegnare da queste istituzioni.
Nel rapporto si parla della progressiva divaricazione tra democrazia e liberalismo come di un “rischio concreto”. Perché?
Il rapporto tra democrazia e liberalismo è stato tradizionalmente problematico. Abbiamo vissuto tutto il Novecento con una grande guerra civile all’interno dell’Occidente su cosa significasse democrazia. È solo da pochi anni che utilizziamo la parola democrazia al singolare, come se non potesse essere che quella liberale. Ma ancora negli anni ’70 in Italia non si parlava di democrazia al singolare. Da qualche anno, riemerge l’ambiguità che ha sempre avvolto la democrazia nel lessico politico occidentale.
Anche l’Unione europea è in crisi?
L’Ue è in crisi per conto suo, periodicamente cerca fuori di sé le ragioni della propria crisi imputandola di volta in volta a Putin, a Trump, ai populismi… No,
l’Ue è in crisi perché ha mancato una serie di occasioni ed è caduta vittima della peggiore trappola per la politica: l’autoindulgenza.
Non ha affrontato una serie di problemi che erano evidenti e che era ovvio sarebbero cresciuti. Si sta vivendo ora una grave crisi di coesione e l’Ue deve cercare dentro la soluzione. Non può aspettarsela da un nuovo presidente americano o russo.
Perché bisogna temere che l’ordine liberale si dissolva?
Non ci sono alternative già pronte, in termini di linguaggi e istituzioni. A differenza di quanto avveniva nel corso del Novecento, quando c’erano ordini politici in crisi ma erano presenti potenziali alternative, oggi quello che rende disperante il dibattito politico è che non si vedono proposte coerenti alternative.
In questo scenario, c’è un ruolo anche per la Chiesa?
Anche la Chiesa è attraversata al proprio interno da forti tensioni, che ruotano anche attorno all’attuale papato. Tutto ciò non credo faccia della Chiesa un soggetto forte. Ed è ancora più preoccupante perché
tutti i soggetti potenzialmente forti sono in crisi:
gli Stati Uniti, la Russia che è assai più debole di quanto si racconti, la Cina che cresce in modo squilibrato, l’Ue che vive una crisi identitaria dalla quale non sappiamo se uscirà mai. È una realtà che mostra una serie di soggetti incapaci di svolgere il ruolo che dovrebbero.