C’è chi tra gli addetti ai lavori definisce il Bira come il peggior centro per migranti di tutta la Bosnia, tra i peggiori dell’intera Rotta Balcanica. Provate ad immaginarlo: una vecchia ditta abbandonata di frigoriferi, fatta di grandi capannoni di cemento affiancati l’uno all’altro a creare un’area industriale di oltre 20mila metri quadrati. All’interno, tra muri scrostati o forati, e scarsa illuminazione, i migranti dormono a gruppi di 120 per tenda, mentre a famiglie e minori è riservata un’ala con dei container da sei posti ciascuno. Complessivamente nel centro – aperto dalla Organizzazione mondiale delle migrazioni nell’autunno scorso per cercare di tamponare una situazione di emergenza al confine tra Bosnia e Croazia – sono ospitati oltre 2mila persone, molti di più rispetto ai 1.500 della capienza massima prevista.
Ci troviamo a Bihać, capoluogo del cantone dell’Una-Sana, alla frontiera nord della Bosnia ed Erzegovina, confine caldo d’Europa. È da qui che passa la “rotta bosniaca”, la via percorsa dai migranti che tentato di aggirare l’irrigidimento dei controlli lungo il confine serbo-croato e serbo-ungherese. Stando ai dati ufficiali dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni
sono stati 24mila i migranti in transito in Bosnia nel corso del 2018 e la maggior parte di loro ha cercato di passare il confine a nord puntando verso Bihać e Velika Kladuša.
Sono per lo più uomini e ragazzi soli, provenienti da Pakistan, Afghanistan e Iran e, in misura minore, da Marocco, Tunisia e India, ma ci sono anche famiglie siriane e irachene con bambini piccoli. Quest’ultime resistono al Bira nell’attesa di essere trasferite al Borici, un altro campo appena fuori dal centro della città che è stato appena ristrutturato dall’Iom e destinato alle famiglie e ai soggetti vulnerabili. Attualmente nel campo, un ex studentato, sono accolte 150 persone ma, una volta a regime, la capienza sarà di oltre cinquecento persone.
I migranti a Bihac arrivano in bus o a piedi, nonostante il freddo e la neve che ancora ricopre le montagne e aspettano il momento buono attraversare il confine: c’è chi ci prova da solo, magari facendosi aiutare dalle mappe sullo smartphone e dai consigli di chi è già passato di lì, e chi invece si affida ai trafficanti, il cui mercato non è mai stato così florido da queste parti.
I migranti lo chiamano “game” (gioco) perché, per la maggior parte di loro, il tentativo si conclude nel punto esatto da cui sono partiti. Un macabro gioco dell’oca che spesso porta con sé danni fisici e psicologici.
“Chi torna al Bira è spesso ferito, sopratutto ai piedi, con escoriazioni, tagli, principi di congelamento”, confida Selam Midžić, segretario locale della Croce Rossa. Colpa delle ore passate nei boschi, dell’attraversamento del fiume Una, ma anche dei respingimenti collettivi da parte della polizia croata: una prassi vietata dalla legislazione europea, ma praticata qui come in altre frontiere.
“Dall’accordo tra Turchia e Unione europea del marzo 2016 i numeri di persone in transito nei Balcani si sono notevolmente ridotti, ma il flusso non si è certamente arrestato e la Bosnia resta il punto con più chilometri di confine dove poter attraversare”, spiega al Sir, Silvia Maraone, coordinatrice degli interventi lungo la Balkan Route per Caritas e Ipsia (Ong legata alle Acli), che non nasconde la preoccupazione per quanto potrà accadere nei prossimi mesi.
“Tenendo conto della chiusura della rotta del Mediterraneo Centrale – ci spiega l’operatrice -, c’è il rischio che la pressione sulla Rotta Balcanica torni ad aumentare”. Un’eventualità a cui il governo di Sarajevo non sembra volersi preparare rifiutando di farsi carico della gestione dei centri già esistenti nel Paese, tutti affidati dall’Iom. A questo si aggiunge il risentimento crescente delle comunità locali: le autorità del cantone dell’Una-Sana, ad esempio, hanno minacciato di chiudere tutti i centri presenti nel cantone se la capienza massima non verrà rispettata e hanno moltiplicato i trasferimenti dei migranti dalle zone di confine verso Sarajevo. Così,
da alcune settimane, gli ingressi al Bira sono, almeno sulla carta, bloccati, come conferma il responsabile del campo Mite Cilkovski, moltiplicando il numero di quanti sono costretti a passare la notte all’aperto.
Al fianco dei migranti, oltre all’Iom, restano così solo le Ong locali e internazionali, la rete Caritas, e i volontari “indipendenti” che dall’Europa arrivano periodicamente portando aiuti. Proprio Ipsia BIH è riuscita ad aprire all’interno del Bira un “Social Café” che serve ogni giorno – nelle tre ore di apertura – oltre quattrocento tazze di Caj, il té come viene chiamato in Turchia e in diversi Paesi di Asia e Medio Oriente. Lo abbiamo visitato accompagnati da una delegazione di Caritas Ambrosiana e Caritas Como che stanno sostenendo, insieme ad altri donatori e a Caritas italiana, i progetti per i migranti lungo la Balkan Route.
“Abbiamo iniziato con alcuni termos – ci racconta Greta Mangiagalli, operatrice di Ipsia a Bihac – servendo le prime tazze di caj alla vigilia di Natale, poi sono arrivati i tavoli, un ping pong, i giochi in scatola. Il Social Café è l’unico spazio dentro al Bira dove ti ho concesso di stare tranquillamente, di sederti e chiacchierare”. Si tratta di un “presidio all’interno del Bira” gli fa eco Michele Turzi, volontario della Caritas di Mantova, “dove sai di poter essere ascoltato”.
“Per noi – conclude Silvia Maraone – è fondamentale lavorare all’interno di un campo come il Bira proprio per le condizioni in cui si trovano le persone. Un intervento come il social café è assolutamente importante per mantenere la loro dignità. Non si tratta di dare una tazza di té, ma di riconoscere gli individui come persone”.
Si sono fatte le 13, il chiosco deve chiudere. Alcuni migranti aiutando a sistemare i tavoli di quello che sentono un po’ come il loro café. Andiamo verso l’uscita camminando tra le tende e portiamo con noi un senso di impotenza di fronte a questa umanità in viaggio. Guardiamo per l’ultima volta i volti dei migranti seduti all’esterno delle tende e ci appaiono come sospesi tra la speranza di potercela fare e la rassegnazione di essere finiti in un limbo: troppo lontani da casa per tornare indietro e troppo stanchi per andare avanti. Ma è solo questione di attimi: il confine è troppo vicino, tutti loro ci riproveranno. Fosse anche l’ultimo passo dalla loro vita.