“Il futuro spesso, anche per noi presbiteri, appare affascinante ma anche pieno di incertezze, di incognite, per cui si insinua l’idea che in quel futuro non ci sia bisogno di noi, che la fede e l’appartenenza ecclesiale saranno in fondo irrilevanti e che il futuro rimanga una terra impossibile da conquistare”. Lo ha detto il card. Angelo De Donatis, vicario generale del Papa per la diocesi di Roma, nel tradizionale incontro di inizio Quaresima del Papa con il clero romano, a S. Giovanni in Laterano. “Il futuro è saldamente nelle mani di Dio, non nelle nostre mani”, ha concluso il cardinale, esortando i parroci ad un esame di coscienza: “Il Risorto e il regno di Dio ci vengono incontro dal futuro e già trasfigurano il presente, nella misura in cui acconsentiamo al cambiamento e non ci lasciamo sopraffare dalla paura. Questa mancanza di fiducia nel futuro di Dio è un’altra variabile del vitello d’oro, del contare cioè sulle nostre forze più che nella provvidenza di Dio che guida la storia”. “Non per niente anche nella Chiesa i giovani vengono umiliati, come Giosuè e Caleb”, si legge nel testo inviato poco fa al Sir: “Non vengono capiti, non vengono ascoltati, sono scambiati per imprudenti sognatori. La verità è che noi vecchi non vogliamo morire: abituati al nostro vecchio mondo mettiamo i bastoni tra le ruote a Dio che sta suscitando il nuovo, a partire dalle richieste che ci fanno i giovani”. “Perché abbiamo smesso di interrogarci sulle loro assenze dalla comunità?”, la prima delle domande per un esame di coscienza: “Perché non si trovano mai nei nostri consigli pastorali? Perché non li andiamo mai a trovare nella scuola o nei loro luoghi di raduno per provocarli, chiedergli di esprimersi e farci dire quando sentono la presenza di Dio, cosa li colpisce del Vangelo di Gesù, come dovrebbe essere la Chiesa per essere a loro misura…”. “Chiediamo perdono al Signore per la tendenza, che spesso si trova in noi presbiteri, ad essere diffidenti verso i laici, a non delegare, ad accentrare tutto nelle nostre mani, forti della presuntuosa convinzione che la nostra volontà coincida con la volontà di Dio”, l’invito finale: “Spesso non siamo né saggi né prudenti, ma solo impauriti di perdere il nostro ruolo centrale. Il profeta che Dio manda (che sia Mosè l’anziano, che sia Giosuè il giovane) si riconosce per il fatto che ripropone con trasparenza nell’oggi la parola evangelica e che la sua vita testimonia il mistero pasquale di morte e resurrezione per amore. Il profeta non fa calcoli, non è geloso, non manipola, non soffoca i fratelli, non disprezza le loro differenze… ma gode nel promuoverli, nel vederli crescere. Sa che la fiducia è la base di ogni azione ecclesiale e che la comunione non è omologazione, ma accoglienza reciproca, riconoscimento, stima anche delle diversità. Non blocca l’azione dello Spirito di Dio, ma la riconosce e la sostiene”.