Il 30 marzo di un anno fa prendeva inizio, a Gaza, la Grande Marcia del Ritorno, indetta da Hamas per rivendicare il “diritto al ritorno” dei discendenti dei palestinesi, fuggiti o cacciati dalle loro terre nel 1948, nei territori oggi controllati da Israele. Diritto rivendicato in base alla risoluzione Onu 194 del 1948. Il 30 marzo è anche la data in cui i palestinesi celebrano la “Giornata della Terra”, istituita per ricordare una manifestazione sfociata nel sangue nel 1976, in cui rimasero uccisi sei manifestanti palestinesi cittadini d’Israele, che protestavano per l’esproprio delle loro terre a favore di insediamenti ebraici.
Bilancio drammatico. Un anno di proteste, lungo la linea di demarcazione tra la Striscia di Gaza e Israele, represse dalle Forze israeliane, che sono costate, secondo i palestinesi, oltre 255 morti, (di questi 49 bambini e 6 donne), circa 23 mila feriti (4000 dei quali sotto i 14 anni). Tra le vittime vanno registrati tre medici e due giornalisti. Tra i feriti oltre 650 sono sanitari e circa 250 gli operatori dei media. Nell’ultimo anno, denuncia Medici senza Frontiere, “Gaza è stata completamente abbandonata: sono oltre 6.500 le persone colpite dall’esercito israeliano che hanno riportato ferite gravi, con interi pezzi di gambe saltati e ossa all’interno frantumate. Queste persone hanno bisogno di interventi chirurgici multipli anche solo per pulire e chiudere le ferite. Molte si sono infettate e questo impedisce operazioni di chirurgia ricostruttiva, che in ogni caso è disponibile solo per un numero ristrettissimo di persone a Gaza. Cercano assistenza in un sistema sanitario compromesso da più di un decennio di blocco israeliano e sono state abbandonate anche dai diversi rami delle autorità palestinesi, bloccate in uno stallo politico che mette i bisogni medici della popolazione all’ultimo posto della loro agenda”. Si tratta di un bilancio che si aggiorna quotidianamente: risale al 23 marzo scorso la morte, durante un venerdì di protesta, di due giovani palestinesi, uno nei pressi del campo profughi di Bureji e l’altro a est di Gaza City.
Bambini traumatizzati. Alla denuncia di Medici senza Frontiere si è aggiunta anche quella del Norwegian Refugee Council (Nrc) che opera nella Striscia e che ha, proprio in questi giorni, diffuso un’indagine – condotta in ottobre e dicembre 2018 – tra 300 studenti (di età compresa tra i 10 e i 16 anni ) di 30 scuole gazawe situate nei pressi della linea di demarcazione con Israele. I dati raccolti evidenziano che
il 68% degli studenti soffre di una forma grave di stress psicologico
dovuto alla violenta repressione delle proteste e agli attacchi quotidiani di cui sono stati testimoni da un anno a questa parte. La maggioranza degli intervistati (61%) ha affermato, inoltre, di essere rimasta scioccata dal fragore delle esplosioni che giungevano dalle vicinanze e dalle immagini del conflitto trasmesse in Tv. Il 42% è stato testimone di diretto di bombardamenti, il 40% ha detto di conoscere persone rimaste ferite o che hanno perso la loro abitazione. Il 33% ha dichiarato di conoscere persone uccise nel corso delle manifestazioni.
Il 54% degli studenti non ha nessuna speranza in un futuro migliore.
“La violenza della quale i bambini sono testimoni quotidianamente, compresa la perdita di persone care, nel contesto dell’assedio paralizzante di Israele, che perpetua e esaspera la crisi umanitaria di Gaza – spiega la responsabile del Rnc per la Palestina, Kate O’Rourke – ha lasciato un’intera generazione emotivamente stressata. Ci vorranno anni di lavoro con questi bambini per guarirli dai traumi e ridare loro un motivo di speranza per il futuro”. Un dato confermato anche dall’Unicef che stima in più di 25 mila i bambini colpiti dalla violenza e bisognosi di un urgente supporto psicologico”. “Chiediamo a tutte le parti responsabili del conflitto – aggiunge la responsabile – di rispettare i diritti di manifestazione pacifica, di intraprendere azioni urgenti per fermare le uccisioni e la mutilazione dei manifestanti e perseguire chi viola il diritto internazionale”. Secondo il Nrc “il drammatico aumento delle vittime palestinesi ha ulteriormente paralizzato un sistema sanitario già al collasso e crea gravi preoccupazioni per l’uso eccessivo della forza da parte dei soldati israeliani. Sotto assedio israeliano da oltre 11 anni, il 54% della popolazione di Gaza è disoccupata, il 53% della popolazione vive in povertà e l’insicurezza alimentare è salita al 68%. Sia l’Onu che il Comitato internazionale della Croce Rossa (Icrc) definiscono il blocco imposto a Gaza una “punizione collettiva”.
“Gaza, come il resto del territorio palestinese occupato, – ribadisce O’Rourke – ha disperatamente bisogno di una soluzione politica giusta e duratura, che riguardi anche i rifugiati palestinesi e che ponga al centro la vita, il benessere e la dignità di palestinesi e israeliani”.
Diritto a difendersi. Dal canto suo Israele, in un tweet del ministero degli Esteri, rilanciato anche dall’ambasciata israeliana presso la Santa Sede, ribadisce il suo diritto a difendersi contro le cosiddette manifestazioni pacifiche durante le quali,
“nell’ultimo anno, i palestinesi hanno lanciato contro il territorio israeliano 1233 razzi, 600 molotov, appiccato 1963 incendi dolosi bruciando 8648 acri di terra e fatto detonare 94 congegni esplosivi. Ora- conclude il tweet – progettano di violare il confine e attaccare civili israeliani”.
In questo clima di forte tensione Israele si prepara al voto del 9 aprile. Nelle ambasciate israeliane di tutto il mondo il personale diplomatico ha già votato il 28 marzo.