Daniela Brunelli e Gelmino Tosi
Siamo oramai entrati nelle ultime settimane di permanenza al Lui Hospital in Sud Sudan. Undici mesi volati, ci sembra ieri di essere atterrati a Juba in un aeroporto fatiscente, sotto degli incandescenti tendoni da sagra, rincorrendo le valigie, un luogo che sin dal primo impatto rispecchiava la situazione di difficoltà del Paese in guerra da 5 anni. Poi il breve tragitto in una Juba che ricordava la Saigon degli anni Sessanta, militari e postazioni di mitragliatrici in ogni incrocio, poi l’albergo e gli uffici di Medici con l’Africa-Cuamm con il filo spinato sui muri.
L’emozione e la trepidazione erano altissime, finalmente un sogno si era avverato: fare un pezzo di strada della nostra vita con compagni di viaggio diversi, camminare insieme fianco a fianco nella quotidianità. Compagni che hanno avuto la sfortuna di essere nati dalla parte sbagliata del mondo, in un conflitto etnico che è sfociato in un genocidio.
Il cammino è stato molto impegnativo soprattutto i primi mesi; noi non avevamo mai provato nella nostra vita di tranquilli occidentali il coprifuoco, gli spari che echeggiavano nell’aria, gli assalti, la violenza sulle donne o le ferite da arma da fuoco, il vivere alla giornata con quello che il territorio offre al momento.
Il senso d’impotenza, di fare una cosa più grande di noi c’è stato, come molte sono state le sfide, molte vinte, altre no. Gli spari, i combattimenti fuori dall’ospedale, il pensiero che tu sei al sicuro, magari sdraiato nel tuo letto e fuori c’è chi muore o viene ferito. L’attesa del guardiano che ti venga a bussare alla porta se qualche ferito fosse arrivato. Il malato, la donna incinta o il bambino che ti muoiono in ospedale perché sono arrivati troppo tardi per la paura di immettersi su una strada piena d’insidie. Dall’altra parte la gioia di poter mandare a casa guarito il bambino malato di tetano, quelli malnutriti o le mamme con i loro piccoli appena nati. Non dimenticheremo le chiamate in tarda sera di Marina da Mundri che ci comunicava di preparare la sala operatoria perché aveva ottenuto il permesso da Juba di far partire l’ambulanza con feriti da arma da fuoco, mamme con partogramma fermo.
Il pensiero ritorna a quel giorno di fine estate 2017 quando abbiamo accettato con trepidazione la nostra destinazione. Sulle scale del Cuamm abbiamo incrociato Giovanni Putoto, un vecchio amico e collega, un veterano dell’Africa (ma ora ci consideriamo anche noi dei veterani), dieci anni in Uganda, ora responsabile dell’area progetti, quattro figli: come a dire che nulla impedisce alla vita di continuare nonostante scelte inconsuete. “Giovanni, partiamo per il Sud Sudan…”. “Bravi!”, fu la sua risposta, con un sorriso scintillante sul volto.
Poi continuò: “Mi raccomando, nessuna illusione, fate quello che vi viene richiesto, senza progetti, senza false speranze, solo l’emergenza, nulla di più”.
Già, cosa abbiamo fatto? Poche gocce in un mare in tempesta, la consapevolezza di essere servi inutili, ma quanto abbiamo ricevuto in cambio? Molto, molto di più di quello che abbiamo dato: nel cuore ci resterà però il ricordo che tutto questo lo abbiamo affrontato assieme come équipe di italiani e africani, supportandoci a vicenda, combattendo fianco a fianco le problematiche giornaliere motivati a fare il meglio. Ci resta la tenerezza dei sorrisi di bambini che trasmettono la voglia di vivere oltre la precarietà e l’incertezza di un ambiente avaro e ostile, luogo in cui la vita e la morte si danno la mano in una danza per noi incomprensibile. Gli sguardi dei colleghi africani, la curiosità che emana da volti che non capiscono cosa ci stia a fare un bianco, privilegiato oltre ogni cognizione, in questa terra dimenticata da Dio. Ci restano le voci dei canti e il rullio di tamburi che con lo stesso ritmo sanno celebrare un evento gioioso come la morte di un parente o di un amico. Ma soprattutto sentiamo la consapevolezza dei nostri privilegi, immeritati e spesso arroganti, con cui il nostro mondo, colpevolmente, ignora le ingiustizie che perpetra nei loro confronti. Perché non dobbiamo dimenticare che il cellulare che abbiamo in tasca, la carta di credito che conserviamo nel portafoglio, la benzina che mettiamo nelle nostre automobili e molte altre comodità sono spesso il frutto della razzia di questo continente. Lo sappiamo, è difficile rendersene conto, come è altrettanto improbo trovare soluzioni adeguate e concretamente realizzabili.
Non ci resta che assumere il più possibile una capacità critica, non dare nulla per scontato, consapevoli che anche le nostre piccole scelte quotidiane possono in qualche modo influire sulla giustizia di questo mondo. Non è facile, ma proviamoci, il cambiamento deve iniziare da qui, milioni di missionari non valgono il gesto quotidiano e consapevole di ognuno di noi, lentamente; non vedremo risultati eclatanti nel breve periodo, ma non vi è alternativa: se cambiamo noi, in Occidente, migliorerà la vita nel sud del mondo.
Abbiamo tuttavia la fortuna di partire dopo aver vissuto il cambiamento dalla guerra alla pace. Cambiamento fatto di piccoli passi: il mercato più fornito, la musica al villaggio, l’arrivo di un biliardo, banchetti fuori dall’ospedale che vendono bottiglie di benzina per le moto. Passi di speranza sempre più numerosi. La gioia per noi più grande è stata la riapertura delle scuole, vedere al mattino grandi e piccoli uscire dai mille sentieri, tutti vestiti di azzurro con in spalla lo zainetto dell’Unicef per ritrovarsi nel piazzale antistante la scuola felici di poter pensare al loro futuro, di sentirsi studenti uguali a tutti quelli del resto della Terra. In questa nostra avventura non ci siamo mai sentiti soli, alle spalle sapevamo di avere delle persone, una comunità che ci accompagnava e per questo vogliamo ringraziare innanzitutto la nostra famiglia, tutto lo staff del Cuamm, il Centro missionario di Verona e soprattutto la comunità di Avesa che tanta sensibilità ha dimostrato nei confronti dell’ospedale.
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