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Don Primo Mazzolari, sessant’anni di profezia

Bruno Bignami

Il 12 aprile 1959 moriva don Primo Mazzolari. Poche settimane prima, Giovanni XXIII lo aveva accolto in Vaticano con un abbraccio, definendolo “la tromba dello Spirito Santo in terra mantovana”. Il gesto del Papa appariva come una liberazione, sia pure in zona Cesarini, secondo il linguaggio calcistico. Dal 1935 al 1959, infatti, il parroco di Bozzolo ha subito molteplici interventi dell’autorità ecclesiastica, a metterne in dubbio l’opportunità della riflessione ecclesiale e sociale. Don Primo ha dovuto digerire rospi amari prima di accogliere il benevolo saluto di papa Roncalli. Così scriveva trent’anni fa padre Nazareno Fabbretti, suo grande amico: “Mazzolari, come Milani, dette la prova che ‘l’amore più grande’ consiste non nel ‘soffrire per la Chiesa ma da parte della Chiesa’” (Il Secolo XIX, 19 maggio 1989).
Se si guarda alla testimonianza evangelica di don Primo non si può dimenticare la sua riflessione sulla misericordia. La celebre omelia “Nostro fratello Giuda” è datata 3 aprile 1958 ed è il punto di approdo di una meditazione lunga una vita intera. Tutta la predicazione di don Primo ha trovato nella parabola del figliol prodigo uno dei temi più sentiti. Dal “parroco dei lontani” e dall’autore del libro “La più bella avventura” (1934), cosa ci si poteva attendere di diverso?

I lontani erano al centro del suo apostolato: “A differenza degli occhi, il cuore fissa le assenze”.

Da qui la sua inquietudine, che trasudava dalle pagine dei libri, dall’appassionato annuncio del Vangelo e dal coraggio del dialogo con tutti. Dove c’è l’uomo, lì non può mancare l’apostolo e chi fa l’apostolo è il cuore, l’apertura d’animo.
A sessant’anni dalla morte, don Mazzolari continua a interpellare i credenti attraverso gli scritti e la profezia delle sue scelte. “La sua parola, fedele e libera, creativa e coraggiosa gli era stata data, come prete, all’altare, e all’altare gli era stata tolta” – ricordava padre Fabbretti, riferendosi all’emorragia cerebrale che lo ha colpito durante la predicazione la domenica in Albis 1959. Ancora oggi c’è bisogno che l’acqua pura che sgorga dai suoi scritti possa diventare ruscello, torrente e fiume anche nella Chiesa odierna, travolgendo le tentazioni di costruire dighe che non sanno far gustare a valle la freschezza della sorgente a monte. Un patrimonio generativo che contagia e che non smette di operare benefici.

Cosa rimane della sua profezia? Di sicuro, il coraggio che proviene dall’amore per Cristo e per la sua Parola.

“I destini del mondo si maturano in periferia”, scriveva. Bozzolo non è certo la capitale d’Italia, eppure da un luogo semplice e periferico ha saputo far partire un messaggio che ha anticipato i tempi e, con il Concilio, ha invaso tutta la Chiesa. È stato definito provocatoriamente “parroco d’Italia”. Non perché avesse ambizioni di comando, anzi! Era invece convinto che lo Spirito di Dio non investe soltanto le vette dove ci sono le leve del potere, ma soffia volentieri nei fondi valle, scopre i casolari e gli eremi e pianta la sua tenda nelle esistenze più emarginate. Così

osava immaginare una Chiesa a doppio servizio: da una parte c’è chi ricopre posti di comando e ha il compito di indicare la rotta. Dall’altra, però, chi sta in basso può offrire un contributo determinante: si accorge di ciò che non va, fa da sismografo dei cambiamenti in corso.

L’immagine della navigazione gli risultava congeniale: “Certo, chi sta in alto sulla nave, vede meglio, vede tutto. La rotta della nave è nel suo sguardo che spazia. Ma pure il marinaio della stiva, il mozzo, il faccendiere, l’ultimo… colui che non ha diritto di mostrarsi sopracoperta, può avvertire degli scricchiolii” (Tra l’argine e il bosco, 69).
Nell’epoca della navigazione web, la riflessione mantiene tutta la sua profezia. Quasi mai sono i personaggi più visibili o più cliccati a costruire il Regno, ma gli umili servi sotto traccia. Quelli che danno voce agli ultimi, dove i selfie e le copertine non arrivano. Gli influencer alla Mazzolari…

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