La questione degli abusi sessuali nella Chiesa è davvero complessa per quanto riguarda radici e conseguenze, responsabilità e vie d’uscita. Nulla di strano che se nediano spiegazioni diverse, purché alla fine ci si ritrovi a lottare assieme.
È in questa ottica che leggiamo, al di là di posizioni preconcette e fuorvianti, l’intervento del papa emerito sugli scandali sessuali. Un intervento col quale Benedetto intende dare il proprio apporto alla spinosissima questione, e lo fa col proprio stile e sensibilità, e grazie alla sua ricca esperienza. Dunque anche con la credibilità che merita chi a suo tempo ebbe il coraggio di cambiare radicalmente un certo approccio clerical-difensivo al problema. Strano che qualcuno lo dimentichi.
Si tratta comunque, per esser precisi, non d’un testo analitico vero e proprio, ma di “appunti”, come li chiama l’estensore stesso, note che non pretendono esser complete né conclusive.
È chiaro, ad esempio, che nella lettura di Ratzinger di tali eventi e della loro storia manchino una prospettiva sistemica e una conseguente identificazione di responsabilità a vario livello, o non si faccia riferimento alle vittime (se non in un solo accenno indiretto), o non sia sottolineato il legame tra abuso di potere e di coscienza, e non s’accenni alla cultura dell’abuso e della sua copertura, o al fenomeno del clericalismo…
Ma chi può negare la verità della sua osservazione che identifica la radice profonda della crisi (anche) nella cosiddetta “etica della situazione”, per la quale “non c’era più il bene, ma solo ciò che sul momento e a seconda delle circostanze è relativamente meglio”? Con pesanti ripercussioni anche all’interno della chiesa e nella coscienza di chi era chiamato a esser formatore di coscienze. Chi di noi lavora nel settore conosce –ahimé- lo sconcerto dinanzi al prete abusatore che si chiede cos’abbia fatto poi di male, o che non ha mai chiesto perdono a nessuno (e non parliamo di casi patologici). Ma tuttora c’è tra noi chi trova eccessivo tutto questo “mea culpa”…
Certo gli abusi non sono causati solamente da una crisi d’autorità o dal generale clima di permissivismo morale-sessuale del ‘68, ma – di nuovo – come non vedere una conseguenza di tutto ciò in quello stile di mediocrità che progressivamente ha tolto passione ed entusiasmo pure alla vita del prete, facendogli cercare gusto e bellezza della sua scelta in ciò che la smentisce e deforma?
L’autorità ha senso solo e perché fa crescere e dà certezze, ma – stiamo sempre più scoprendo – se manca o è debole e ambigua in un cammino formativo espone stranamente il futuro presbitero ad abusare d’essa e del proprio ruolo, cadendo in quelle forme di clericalismo disperato che cerca il potere sull’altro.
E ancora, la pedofilia non è certo un prodotto della rivoluzione sessuale, e Ratzinger sa bene che pedofili ve ne sono stati anche prima, ma nemmeno la tanto decantata liberazione sessuale (quella del far sesso “con chi voglio e come voglio, quando e quanto voglio”), figlia di quella rivoluzione, ha prodotto vera libertà, quella che “benedice” la sessualità, ne cogliebellezza e verità e ne rispetta la grammatica. Semmai ha illuso e sedotto anche chi avrebbe dovuto sapere ove abita la gioia puradell’incontro. Quella libertà che, invece, hanno poi manifestato le vittime, che proprio in quel tempo hanno iniziato a parlare, provocandoci a chiederci: quanto vangelo c’è in una chiesa ove non solo l’altro è violato, ma ove più forte èlapreoccupazione di difendersi che non di capire il dramma da essa stessa causato?
Grazie a loro questo potrebbe esser un momento di grazia. Ma lo sarà se tutti ci sentiamo coinvolti in questa riforma della Chiesa e diamo il nostro apporto, ognuno dal suo punto di vista, in quanto tutti responsabili, perché in essa ogni gesto e affettosiano trasparenzadell’amore del Padre.