Bisogna passare da una comunità centrata sulla “sopravvivenza pastorale” al “Noi”, attraverso il coinvolgimento della famiglia per “creare luoghi generatori che comprendano e accompagnino le diverse dimensioni della vita”. Lo sostiene suor Veronica Donatello, responsabile del Settore per la catechesi delle persone disabili dell’Ufficio catechistico nazionale della Cei, nel giorno in cui si apre a Sacrofano il convegno nazionale sul tema “La comunità generativa: l’accompagnamento alla vita cristiana della persona con disabilità”.
Perché parlare di comunità generativa?
Un papà e una mamma non mettono solo al mondo i figli, ma li accompagnano nella crescita. E accompagnare le persone con disabilità è il compito che spetta alla comunità. A volte siamo carenti: si risponde in un ambito, ma non ad un altro. Sui giovani, ad esempio, si lavora tanto mentre su altri aspetti si lascia alla buona volontà della diocesi o di singole persone. Questo non è possibile. Le persone attraversano diverse fasi nella vita.
Bisogna lavorare sulla qualità di vita della persona con disabilità, che non è solo mangiare, bere, dormire e sacramentalizzare. Tutto ciò sicuramente deve esserci, ma la comunità è chiamata ad altro.
Cosa significa accompagnare la persona con disabilità alla vita cristiana?
La catechesi è un atto relazionale e comunicativo e oggi siamo invitati a cambiare il modo di comunicare. Infatti nonostante il tanto cammino fatto, la stessa catechesi fa fatica a uscire da un approccio scolastico e cognitivo, legato al sussidio, che non riconosce altre intelligenze anche se utilizza linguaggi innovativi.
Le diocesi hanno colto questo cambio di prospettiva?
Spesso il territorio anticipa quello che facciamo a livello nazionale e il lavoro, naturalmente, non si esaurisce in un convegno. Chi lavora in comunità e lavora bene, è normale che accolga e accompagni la persona nel corso della vita.
Anche la parrocchia deve accogliere l’altro, non solo il bambino ma una persona che cresce e cambia le proprie esigenze nell’arco dell’esistenza.
Pure nella fase finale: e spesso anche noi, nelle nostre strutture, facciamo poca catechesi.
foto SIR/Marco Calvarese
Ma non è facile accompagnare le persone con disabilità in contesti spesso segnati da manca di attenzione anche da parte dello Stato.
È vero, per questo dobbiamo puntare sulla qualità di vita. Oltre al diritto allo studio e al lavoro, ad esempio, c’è bisogno del diritto alla spiritualità. Anche le persone con disabilità hanno diritto alla propria spiritualità e il mondo scientifico se ne è accorto.
Penso agli anziani con disabilità, e alle pochissime realtà in Italia che se ne fanno carico. È un campanello di allarme che va ascoltato.
Se con il battesimo appartieni a una comunità ma ci resti soltanto fino ai 12 anni, non avrai mai la possibilità di essere soggetto attivo e mettere a frutto i tuoi doni.
Che bilancio dopo 8 anni trascorsi ad essere voce delle persone con disabilità nella Chiesa italiana?
È maturata tanto la sensibilità dei vescovi, adesso sono loro che anticipano tanti bisogni. Lo vedo dalle risposte e dal modo di stare accanto alle persone. Si sono fatti tantissimi passi avanti seguendo un duplice movimento.
La Chiesa si è lasciata provocare e le persone disabili hanno riscoperto la loro soggettività. Si è lavorato insieme. Hanno iniziato a “pretendere” che tutto non si concludesse con la Comunione.
Hanno scoperto il loro dono. Questo ha obbligato la comunità a modificarsi per accoglierli. È un tempo bello perché ci si è messi in moto insieme: la famiglia, la persona con disabilità e la Chiesa. Tutto non può esaurirsi con i Sacramenti.