“Ecco che cos’è difficile in quest’epoca: gli ideali, i sogni e le belle aspettative non fanno neppure in tempo a nascere che già vengono colpiti e completamente devastati dalla realtà più crudele. È molto strano che io non abbia abbandonato tutti i miei sogni perché sembrano assurdi e irrealizzabili. Invece me li tengo stretti, nonostante tutto, perché credo tuttora all’intima bontà dell’uomo. […] Vedo che il mondo lentamente si trasforma in un deserto, sento sempre più forte il rombo che si avvicina, che ucciderà anche noi, sono partecipe del dolore di milioni di persone, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto tornerà a volgersi al bene, che anche questa durezza spietata finirà, e che nel mondo torneranno tranquillità e pace. Nel frattempo devo conservare alti i miei ideali, che forse nei tempi a venire si potranno ancora realizzare”. Sono le parole di una lettera che Anna Frank scrisse nel luglio del 1944, pochi giorni prima di essere arrestata, su delazione, e deportata ad Auschwitz; le ho scelte in primo luogo pernon dimenticare i ricorrenti episodi di razzismo che dimostrano fin dove possano arrivare l’ignoranza e l’irrazionalità dei nostri tempi;in secondo luogo, perché nella lettera della quindicenne tedesca si ritrovano la stessa radicalità, la stessa spinta ideale che nei medesimi giorni dell’estate 1944 portavano tanti altri giovani europei a combattere il nazifascismo sulle nostre montagne, nelle nostre città, nelle nostre fabbriche e campagne; una spinta ideale che mise insieme persone di ogni posizione sociale e di ogni colore politico.
Si è spesso cercato di dare alla guerra partigiana un significato angustamente politico, anzi partitico, identificando le formazioni partigiane con le varie sigle dei partiti antifascisti che, annullati dal fascismo, avevano ripreso la scena dopo la destituzione di Mussolini del 25 luglio 1943; ma va detto che allora, per intellettuali e contadini, industriali e operai, giovani e anziani, militari esperti e renitenti che non avevano mai imbracciato un’arma, non credenti e cattolici praticanti, uomini e donne, non era importante dichiarare la propria appartenenza politica, ma andare oltre l’indifferenza e il comodo stare alla finestra in attesa dei liberatori.
Va ricordato con forza che la loro, prima di tutto, fu una scelta di libertà:
nulla e nessuno li costringeva a lasciare le proprie case e occupazioni, a scegliere consapevolmente i disagi della vita in montagna, i duri sacrifici quotidiani della clandestinità e il rischio continuo di essere catturati, torturati e uccisi. A spingerli non erano certo l’interesse o il tornaconto personale, bensì gli alti ideali descritti dalle parole di Anna Frank, come ebbe a dire il 25 settembre 1945, alla prima riunione della Consulta nazionale, Mario Argenton, futuro presidente della Federazione italiana volontari della libertà, che iniziò il suo discorso con queste parole, per riassumere cosa fu la Resistenza: “Abbiamo combattuto per tornare a testa alta fra gli uomini liberi in una libera Patria”.
Questa scelta di libertà era l’aspirazione ad agire secondo i propri ideali e ad operare per un futuro dell’Italia nel quale le nozioni di libertà, democrazia e giustizia avessero un significato più autentico e reale rispetto ai vuoti proclami del regime fascista, alle crescenti prevaricazioni e ai continui soprusi che l’avevano caratterizzato.
Questa scelta di libertà, inoltre, non era né facile né scontata, anzi; essa nasceva nelle giornate più tragiche della nostra storia nazionale: in fuga il Sovrano e il Governo, che, in cambio della propria salvezza, non avevano esitato a lasciare la capitale ai tedeschi e il paese nel caos; allo sbando l’Esercito, disorientato da un capovolgimento di fronte non preparato e da ordini equivoci e contraddittori; allo sbando la popolazione civile, in un primo momento ignara e festante, credendo finiti tre anni di guerra segnati drammaticamente da impreparazione e improvvisazione, da bombardamenti e restrizioni, poi smarrita e sconvolta sotto il peso di un’occupazione tedesca particolarmente dura e feroce: era questo il quadro dell’Italia all’indomani dell’8 settembre.
In questo quadro, iniziò la Resistenza.
Fu una Resistenza dalle molteplici forme, con la popolazione civile che aiutava i partigiani e nascondeva ricercati, ebrei e prigionieri alleati; con gli internati militari italiani che, a più riprese, rifiutarono cibo e condizioni migliori proposti dai tedeschi; con i giovani che, con armamento insufficiente e in situazioni difficili, seppero infliggere gravi colpi alla stessa Wehrmacht.
Fu una Resistenza che sbocciò spontanea contro l’occupazione straniera e contro il “nuovo ordine europeo”, il progetto nazista basato sull’oppressione e sulla schiavitù, sulla supremazia razziale e su un conformismo forzato e illiberale; un progetto esplicitamente condiviso dai fascisti della cosiddetta “repubblica sociale”, che si schierarono accanto ai tedeschi. La Resistenza diventò così anche guerra fratricida e fu questa, fra le tante responsabilità di Mussolini e del fascismo, la più grave e cominciò in tal modo una lunga serie di violenze, eccidi e rappresaglie, che si aggiunsero agli orrori e alle distruzioni dell’intera penisola, divenuta teatro di una guerra combattuta palmo a palmo.
È indubbio che la Resistenza armata abbia avuto un ruolo importante nella vittoria alleata: tuttavia, a distanza di oltre settant’anni,credo sia giunto il momento di dare il giusto rilievo alla dimensione morale e ideale della Resistenza,la dimensione che accomunò tutte le diverse e colorate culture politiche delle formazioni partigiane: sia quelle comuniste, che quelle socialiste e quelle ispirate al Partito d’azione, sia quelle liberali, che le formazioni autonome, apartitiche o cattoliche, le formazioni che poi confluirono nella Fivl. Seppur con limiti e difficoltà, tutte le formazioni partigiane avevano ben compreso come prima del dibattito democratico, segnato da inevitabili e necessarie divergenze, occorresse rinsaldare i vincoli, tanto preziosi quanto fragili, del bene comune, quei vincoli che il comandante piemontese Enrico Martini Mauri così riassumeva: “Durante i periodi di relativa quiete sui monti, erano sempre i progetti di un’Italia più bella, quelli che occupavano le menti dei partigiani”.
L’idea che ci sia un bene comune che deve prevalere, al quale tutti dobbiamo contribuire, responsabilmente e consapevolmente, deve continuare a essere tenuta in grande evidenza anche oggi, in un’epoca in cui si abbattono ostacoli e frontiere per merci e denaro, ma si erigono barriere e muri sempre nuovi per gli esseri umani, in un contesto nel quale appare difficile, se non impossibile, andare oltre all’individualismo esasperato e al tornaconto immediato assunti come unici criteri di riferimento.
In questa fase delicata e complessa della storia dell’Italia repubblicana, segnata dalla crescente frammentazione e da visioni sempre più ristrette e miopi, sorrette solo da paure e cinismo, rievocare le vicende tragiche che hanno permesso la nascita della Repubblica italiana e commemorare la Liberazione significa
uscire delle paludi pericolose dell’indifferenza, del fatalismo e della rassegnazione,
significa ricordarci il dovere di combattere tutti i fascismi, quale sia la forma in cui la storia li ripropone, significa capire lo stretto intreccio che sempre intercorre tra le scelte individuali e quelle collettive, per ritrovare, il coraggio di amare la verità, di credere ai propri ideali e ai propri sogni, come affermava Anna Frank, il coraggio di riaffermare, tutelare, rinsaldare sempre quella dimensione etica e ideale, quel futuro comune e condiviso che furono la causa cui tanti italiani dedicarono il loro impegno e la loro vita.
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