Si torna a parlare di branco e di adolescenza violenta e scellerata.
A Manduria, in provincia di Taranto, un gruppo di giovanissimi si è ripetutamente accanito contro un pensionato sessantaseienne, affetto da disagio psichico. Antonio Cosimo Stano, questo il nome della vittima, è morto qualche giorno fa dopo una lunga agonia. È stato trovato in casa in gravi condizioni dalle forze dell’ordine il 6 aprile scorso. I vicini di casa parlano di ripetuti assalti, per lo più notturni, avvenuti nella stessa abitazione di Antonio e andati avanti per circa sei anni. Ci sono dei video a testimoniare i soprusi e le aggressioni, girati dagli stessi aguzzini e scambiati su una chat di whatsapp intitolata “Gli orfanelli”, un nome significativo dato a un gruppo di “normalissimi ragazzi, studenti di liceo, nati e cresciuti in contesti familiari a modo” (scrivono i legali che ora ne cureranno la difesa in tribunale).
“Era solo per ridere, mica lo volevamo morto”, si difende uno dei ragazzini.
Antonio Stano era lo “scemo del villaggio” da andare a trovare nelle serate di noia e malessere. Arrivavano gradassi e davano pugni e bastonate all’uscio, perché gli venisse aperto. I segni dei colpi sono ancora impressi sul legno del portone della casetta bianca di Antonio, che abitava vicino al complesso parrocchiale di San Giovanni Bosco.
Dunque i sedicenti “orfanelli” avevano tutti una mamma e un papà che li aspettavano a casa, mentre loro tiranneggiavano il “pazzo” e lo derubavano anche. È stato fatto anche un esposto da chi questi episodi li aveva visti e aveva udito le “urla nella notte”. Ciononostante Antonio è rimasto solo con il suo incubo. Nell’ultimo periodo pare non uscisse più neppure di casa, era terrorizzato. In uno dei filmati si sente la sua voce che implora: “Perché venite sempre da me?”.
Insomma, gli ingredienti del noir ci sono tutti: degrado, disagio, povertà, solitudine, indifferenza, devianza, assenza genitoriale, mancanza di valori. Materiale ghiotto per articoli di denuncia sociale, pieni di inutili parole e traboccanti quello sdegno collettivo che monta emotivamente e poi si sgonfia nello spazio di una settimana. Manca invece la risposta (fondamentale) alla domanda che sale prepotente e si annoda nella gola: perché?
Come si può varcare il confine tra il bene il male con tale disinvoltura, filmando anche le proprie gesta? Come si può essere così giovani e talmente spietati?
Viene in mente quanto scritto a proposito della “banalità del male” da Hannah Arendt. Nel 1963 la filosofa affermava: “È anzi mia opinione che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. È una sfida al pensiero, come ho scritto, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale”.
Uno dei ragazzi ha detto: “Ho sbagliato, non mi rendevo conto del male che stavamo facendo, non ho avuto la forza di fermarli perché, in fondo, lo facevano tutti. Passavamo il tempo”.
Non serve stavolta scomodare le solite rampogne sull’abuso dei social, sull’assenza genitoriale e la crisi delle agenzie educative. Il nodo sta proprio (e ancora) nell’affermazione della Arendt. Manca il pensiero a questa società. Vi abbiamo rinunciato per il timore di non essere in grado di sostenerlo.
L’assenza di pensiero genera mostri, teniamolo a mente. E i mostri “passano il tempo” intrattenendosi col male.
Prima del pianoforte, del tennis, della danza, della chitarra e della grammatica… Insegniamo a pensare ai nostri figli e a sostenere il peso del dolore che a volte si incontra nell’approfondire ciò che è insito nelle pieghe della vita, come lo stesso disagio.