Riscoprire le “ragioni appassionanti” della missione, nell’ottica della “sinodalità”. Mons. Francesco Beschi, vescovo di Bergamo e presidente della Commissione episcopale per l’evangelizzazione dei popoli e la cooperazione missionaria tra le Chiese, sintetizza così il tema principale dell’Assemblea della Cei, sul quale ha presentato una relazione ai suoi confratelli. “Mandare in missione anche un solo missionario in una piccola diocesi vuol dire far crescere quella diocesi”. Missione, insomma, come “via” per camminare insieme, attraverso una “conversione pastorale” di tutto il popolo di Dio, anche in vista degli Orientamenti pastorali del prossimo decennio. Partendo dalla consapevolezza che “la missione, oggi, è ancora un modo per essere Chiesa che parla anche a chi è fuori della Chiesa”.
“Sinodalità” è la parola-chiave sia del discorso del Papa che dell’introduzione del card. Bassetti: come si lega alla missionarietà, tema centrale dell’Assemblea generale?
C’è un rapporto inscindibile tra l’esperienza della missione e quella della comunione. La missione della Chiesa, nell’insegnamento del magistero, nasce da un’esperienza di comunità: è lì che si genera la missione. Nello stesso tempo, il magistero ci ha portato a considerare come la comunione è anche l’esito, il frutto della missione. Questa modalità della comunione prende il volto della sinodalità: comunione, infatti, significa non solo essere insieme, ma camminare insieme. Non a caso, nella mia relazione, ho parlato di “via” della missione, come qualcosa che ha a che fare con la dimensione della sinodalità, che deve caratterizzare tutte le istituzioni missionarie. Il binomio “comunione e missione” era già al centro degli Orientamenti pastorali della Cei per gli anni Ottanta, ma va ben oltre un progetto decennale:
bisogna ritornare a concepire la Chiesa nell’ottica della missione, che non è mai un fatto soltanto individuale, ma il frutto della “conversione missionaria” di una Chiesa che si concepisce come “popolo”, termine quest’ultimo molto amato da Papa Francesco.
Il carisma degli istituti missionari, in questa prospettiva, arricchisce la missione, ma non è mai individuale, perché attrae intorno a sé una comunità concreta.
Il tema della missionarietà sarà parte costitutiva dei prossimi Orientamenti pastorali?
A mio avviso c’è un legame molto profondo. Credo che la dimensione di “apertura” della comunità ecclesiale, nella prospettiva della “Chiesa in uscita” delineata dal Papa nell’Evangelii gaudium, caratterizzerà il prossimo decennio, che sarà fortemente connotato sulla missionarietà. Se ne è già cominciato a discutere tra i vescovi.
Parlare di “primato” della missione significa anche, concretamente, fare i conti con la crisi delle vocazioni e il progressivo invecchiamento del clero: sono circa 400 i “fidei donum” in Italia, a fronte di 226 diocesi…
Non c’è dubbio che i numeri siano diminuiti, in termini evidenti e imponenti. Bisogna tenerne conto, ma anche cominciare a ragionare in maniera un po’ diversa rispetto al passato. Ho ricordato ai vescovi come ci sia bisogno di “ri-offrire” le ragioni appassionanti della missione, partendo da una convinzione che in questi cinque anni di presidenza della Commissione Cei ho maturato:
noi vescovi dobbiamo essere convinti che mandare in missione anche un solo missionario in una piccola diocesi vuol dire far crescere quella diocesi.
La missione fa crescere, dobbiamo tornare a condividere tra di noi questa convinzione. Basti pensare a come le parrocchie e le diocesi ”curano” i loro missionari, per far sì che si sentano a casa quando tornano e si sentano sostenuti dalla loro comunità quando ripartono.
Tra i missionari è sempre più massiccia la presenza dei laici: come qualificarla sempre meglio, anche per evitare quello che il Papa chiama il “clericalismo”?
La novità principale in questo campo è la nascita della figura del “fidei donum” laico: il laico che parte con un mandato, a volte insieme alla sua famiglia. È una strada da sostenere, da parte di noi vescovi, anche studiando convenzioni appropriate e sostenendo le partenze dei più giovani. Quest’anno, solo in diocesi di Bergamo, sono partiti, ad esempio, 150 giovani per tre settimane, facendo esperienza di missione in tutti i Paesi, adeguatamente formati e preparati tramite appositi corsi durati un anno. Non sono pochi quelli che si sono detti disponibili a partire di nuovo. Per loro, invece della convenzione per tre anni si potrebbero ipotizzare convenzioni anche di un anno o di sei mesi: l’importante è prepararli bene. Molti centri missionari diocesani e molte parrocchie sono ben attrezzate a svolgere questo compito.
Quali le altre urgenze sul versante della formazione?
È’ importante che i seminari diocesani e interdiocesani non trascurino la “teologia della missione” e il prezioso apporto che può venire dall’esperienza dei missionari. Occorre insistere, inoltre, sulla formazione permanente dei preti. La formazione dei laici è già molto accurata, e potrebbe essere rilanciata attraverso il Cum (Centro unitario missionario), che ha una storia molto ricca alle spalle, capace di accogliere e valorizzare tutte le modalità formative in questo ambito. Da offrire e proporre, oggi, anche a chi arriva nel nostro Paese, in modo che possa non solo imparare la nostra lingua, ma la nostra cultura.
La missione, oggi, è ancora un modo per essere Chiesa che parla anche a chi non è nella Chiesa:
basti pensare al recente successo del Festival della Missione a Brescia, che ha visto il protagonismo degli istituti missionari, insieme, e la loro capacità di comunicare che va molto oltre la dimensione “ad intra”. Tutta la città si è mobilitata, e per alcuni eventi si è dovuto perfino limitare gli accessi per questioni di sicurezza.