I vescovi della Conferenza episcopale italiana – riuniti nei giorni scorsi a Roma in occasione della 73ª Assemblea generale – hanno nominato l’arcivescovo di Gorizia, mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, presidente della Commissione episcopale per il servizio della carità e la salute e quindi anche della Caritas italiana. Mons. Redaelli raccoglie il testimone da mons. Corrado Pizziolo, vescovo di Vittorio Veneto, che ha ricoperto ad interim il ruolo di presidente dopo le dimissioni nel dicembre scorso del cardinale Francesco Montenegro, vescovo di Agrigento, alla guida dell’organismo ecclesiale dal 2015.
Monsignor Redadelli, quale brano del Vangelo le viene in mente pensando alla Caritas?
Certamente la parabola del giudizio finale nel cap. 25 del Vangelo di Matteo. Lì Gesù divide l’umanità in due categorie entrambe accomunate dal fatto di non sapere che Lui è presente nell’affamato, nell’assetato, nello straniero, nell’ignudo, nel malato, nel carcerato: quelli che lo hanno comunque aiutato e quelli che non lo hanno soccorso. In realtà da quando il Signore ha proclamato quel Vangelo è nata una terza categoria: quelli che sanno che nell’affamato, nell’assetato, nello straniero, nell’ignudo, nel malato, nel carcerato c’è il Signore. La Caritas è costituita dalle persone che sanno questo, che riconoscono Gesù nel povero e lo servono. Senza alcuna pretesa di esclusiva e contenti se altri, anche non credenti, comunque vivono un servizio di amore. Ma anche sentendosi molto responsabili del dono della fede che fa vedere Cristo nel povero anche nei confronti di tutta la comunità cristiana. Ben consci che non è automatico servire il povero, pur sapendo che in lui è presente Gesù.
Quali sono le emergenze che Caritas italiana si trova oggi ad affrontare? A quali “periferie” rivolge oggi –
per usare un’espressine cara a Papa Francesco – la sua attenzione?
Negli scorsi decenni l’impegno più rilevante della Caritas, almeno a livello nazionale, era quello legato alle emergenze straordinarie: terremoti, alluvioni, calamità naturali. Sono vescovo in un regione che è stata per certi versi il banco di prova della Caritas ai suoi inizi con il terremoto del 1976: ci sono tuttora operatori e responsabili delle Caritas diocesane che hanno avuto qui in Friuli il loro battesimo di volontari. Oggi non manca l’attenzione a questi eventi, come dimostra il rilevante impegno della Caritas, nella sua dimensione nazionale e in quella regionale, a favore delle popolazioni colpite dal terremoto dell’Italia centrale. Ma ora l’emergenza sono le persone e le famiglie povere o diventate povere: colpite dalla crisi economica, dalla perdita del lavoro, dalle difficoltà familiari, ecc. Senza dimenticare le ludopatie, l’alcolismo, le dipendenze in genere con conseguenze devastanti anche sotto il profilo economico. E allora la richiesta sono i soldi per pagare l’affitto, per onorare i debiti, per saldare le bollette della luce e del gas. O anche il bisogno di generi alimentari: anche nella piccola realtà della mia diocesi stiamo aprendo un terzo emporio della solidarietà e stiamo già pensando a un quarto. Cosa impensabile un po’ di anni fa.
Il mondo Caritas per lei non è un novità: da alcuni anni segue le Caritas del Nord Est ed è membro della presidenza di Caritas italiana. Posso chiederle che cosa la affascina di più di questo mondo?
In realtà sono tre aspetti caratterizzanti la Caritas che da sempre mi hanno colpito. Anzitutto la dedizione appassionata e disinteressata di tantissime persone. Penso ai volontari che sostengono e animano i centri di ascolto parrocchiali, le mense per i poveri, gli empori, ecc., ma anche chi fa parte di realtà più strutturate, ma senza che questo tolga nulla alla dedizione reale e con il cuore.
Una seconda realtà che mi fa molto apprezzare il mondo Caritas è la concretezza. Certo anche noi della Caritas sappiamo fare analisi, rapporti, progetti, ecc. ma anzitutto si fa, si opera, si dà una mano. Con il cuore, con la testa, ma appunto con la mano.
Il terzo elemento che mi affascina nella Caritas e che vorrei si riuscisse a potenziare maggiormente è ciò che nel linguaggio Caritas è chiamato “opere-segno”. Lì c’è la profezia del Vangelo.
Può spiegare meglio?
Le “opere-segno” sono quelle iniziative che non hanno la pretesa di risolvere i problemi – la Caritas sa che deve sempre difendersi dalla tentazione dell’onnipotenza salvifica… –, ma di essere appunto un segno. Segno di un bisogno di cui magari nessuno si accorge, persino a volte la comunità cristiana nel suo insieme. Segno di un impegno che pochi vogliono assumersi. Segno di un amore che non fa calcoli. Si tratta di iniziative concrete, reali, che aiutano effettivamente, ma dove si evidenzia la finalità che da sempre caratterizza la Caritas italiana (anche diversamente da altre Caritas): quella educativa, promozionale, pedagogica e profetica. Faccio degli esempi per spiegarmi. In una società dove si cerca di far passare il concetto che se uno sbaglia va messo in carcere e si deve buttare via la chiave, è un’opera segno una struttura (e anzitutto delle persone…) che accoglie chi è agli arresti domiciliari o ha diritto di scontare pene alternative al carcere. O ancora – sono tutti esempi reali… – è un’opera segno quella che prevede una casa di accoglienza e di accompagnamento e sostegno per mariti separati, spesso privi anche di lavoro. E’ un’opera segno anche quella che in contesti fortemente connotati dalla malavita offre spazi di lavoro per i giovani. O ancora, è opera segno quella che si prende cura di offrire un doposcuola ai bambini e ragazzi stranieri e contemporaneamente propone percorsi di integrazione e di emancipazione per le loro mamme. O, per fare un ultimo esempio, il progetto “rifugiato a casa mia” in un contesto di sospetto e di rifiuto verso il profugo. Le opere-segno esigono molto discernimento, capacità di lettura evangelica e profetica del territorio, umiltà di avviare i processi senza pretendere risultati immediati e senza difendere un’esclusiva.
A proposito di esclusiva, la Caritas collabora con altre realtà pubbliche e private?
Certamente ed è una cosa positiva se fatta con l’intento comune di servire da diversi punti di vista i poveri. C’è un’interessante collaborazione con le istituzioni pubbliche, dai diversi ministeri governativi fino ad arrivare ai servizi sociali di quartiere o di comune. Esiste un buon rapporto anche con istituzioni di ricerca, con il mondo dell’università e della scuola. Ma anche con molte realtà del terzo settore: associazioni, fondazioni, onlus, eccetera.
Ma torniamo alle opere-segno e in genere alle iniziative promosse dalla Caritas: sono capite dalla comunità cristiana o c’è ancora la tentazione di demandare l’aspetto caritativo alle Caritas? Eppure papa Francesco, parlando dinanzi ai rappresentanti delle Caritas diocesane italiane nel 2016 aveva ricordato che tutta la comunità deve essere soggetto di carità. Che cosa si può fare?
È noto che le dimensioni fondamentali di una comunità cristiana, a cominciare dalla parrocchia, sono: Parola, Liturgia (e Sacramenti) e Carità. È vero che per ognuno di questi aspetti ci devono essere persone che li seguano in maniera specifica. Esistono così in ogni comunità i lettori, i ministranti, i catechisti, i ministri straordinari della Comunione, gli operatori caritas, ecc. Ma mentre per la Parola e la Liturgia e i Sacramenti la comunità cristiana si sente comunque coinvolta e non pensa che la Parola sia una questione solo per i lettori o i gruppi biblici e la Liturgia sia riservata ai soli ministranti, per la Carità spesso ritiene che ci debba pensare la Caritas. Come fare? Penso sia utile rendere meno separate possibili le tre dimensioni. In concreto, per esempio, sarebbe opportuno inserire nei percorsi catechistici una iniziazione alla carità. O anche, nelle proposte formative per gli operatori della Caritas, dare più spazio alla Parola e alla Liturgia. Ma il centro dovrebbe essere la Messa domenicale della comunità, dove si ascolta la Parola, si celebra l’Eucaristia, ma anche si raccolgono risorse per i poveri, si parte per portare la Comunione ai malati, ma anche per andare incontro ai poveri (sarebbe interessante che prima della benedizione finale i ministri straordinari della Comunione andassero visibilmente e con una mandato della comunità dai malati e dagli anziani, e con la stessa visibilità e con identico mandato anche, per esempio, gli operatori della mensa andassero a preparare il pasto per i bisognosi).
Sembra che anche nelle nostre comunità cristiane vada diffondendosi un atteggiamento di preclusione e di non accoglienza verso chi viene visto come “diverso” perché parla un’altra lingua, professa un’altra religione, proviene da Paesi lontani. Come fronteggiare questa cultura del sospetto per favorire la cultura dell’accoglienza? Come agevolare le persone a capire la realtà del fenomeno migratorio superando i pregiudizi e le paure aiutando a ragionare con la testa e con il cuore e non con la pancia?
Il tema delle migrazioni è una questione non facile che ci sta accompagnando da anni e ci accompagnerà a lungo nel futuro. Non si deve avere la pretesa di risolverla, ma di gestirla, questo sì. A chi ha compiti di governo e di amministrazione spetta affrontarla con apertura, saggezza, lungimiranza, cercando con pazienza e determinazione la collaborazione con i Paesi di partenza e con quelli di arrivo e delineando forme dignitose di gestione del fenomeno (corridoi umanitari, strutture adeguate di accoglienza, percorsi integrativi e formativi, ecc.). Evitando ogni strumentalizzazione per meri scopi elettoralistici.
Le Chiese diocesane – attraverso le Caritas – hanno svolto in questi anni un ruolo di supplenza dello Stato per l’accoglienza. Ora che questo ruolo è in parte venuto meno per evitarne strumentalizzazioni, sembra che non interessi più a nessuno attuare percorsi di integrazione…
Giustamente si parla di supplenza. Non tocca alla Chiesa e alla Caritas gestire i richiedenti asilo o i migranti. Negli scorsi anni le Diocesi e le Caritas si sono attivate su richiesta, spesso pressante, delle Prefetture mettendo a disposizione, anche gratuitamente, strutture e in molti casi, direttamente o attraverso fondazioni, cooperative e associazioni legate alle Caritas, si sono impegnate anche nella gestione con personale volontario e anche stipendiato. La legislazione promulgata nei mesi scorsi, molto riduttiva sotto il profilo degli interventi previsti, dei servizi di integrazione da garantire (con il venir meno del sistema di accoglienza diffusa) nonché delle risorse, ha reso impossibile per scelta o di fatto a molte Caritas di proseguire nell’impegno. Alcune hanno scelto di aderire comunque ai bandi pubblici, integrando i servizi venuti meno con proprie risorse, altre hanno desistito, ma scegliendo di continuare in ogni caso a offrire accoglienza, accompagnamento e integrazione.
Uno slogan che è stato spesso ripetuto è “aiutiamoli a casa loro”. La Caritas italiana da sempre ha operato all’estero: è ancora così?
Lo scorso anno la Caritas italiana ha speso più di 9 milioni di euro per interventi nei Paesi in via di sviluppo, sia per emergenze, sia per progetti sociali, sanitari, educativi. 88 sono i Paesi in cui è intervenuta sempre in collaborazione con le Chiese locali. In molti casi ha offerto un significativo supporto alla nascita e alla crescita delle Caritas in loco. L’azione all’estero è quindi sempre caratterizzata ecclesialmente: la Caritas non è una ong qualsiasi, ma è espressione di una Chiesa – quella italiana – che collabora con altre Chiese sorelle.
Lei è diventato presidente della Commissione episcopale per il servizio della carità e la salute di cui era già membro (ed è questa presidenza che l’ha resa automaticamente anche presidente della Caritas). Una Commissione quindi che si interessa anche dei temi della salute e non solo della carità.
Sì, è un altro grande ambito, forse meno strutturato di quello della Caritas, ma non meno importante. Si tratta dell’assistenza spirituale negli ospedali e nelle strutture socio-assistenziali (attraverso i cappellani e diaconi, religiosi e religiose e laici che compongono la cappellania); delle ancora molte strutture sanitarie e socio-sanitarie e assistenziali promosse da realtà ecclesiali; della cura e formazione cristiana del personale impegnato in queste strutture; ecc. Questioni molto delicate che sono all’attenzione della Commissione sono anche quelle di carattere bio-etico ora particolarmente attuali e dibattute: pensiamo, ad esempio, a tutto il tema del fine-vita. Anche nel caso della pastorale sanitaria occorre evitare la “delega” ai cappellani o ad altri operatori: una comunità parrocchiale – a cominciare dal parroco, dai sacerdoti e dai diaconi – non può non interessarsi dei propri malati.
E per finire come abbiamo iniziato: quale brano del Vangelo collega con la pastorale della salute?
Nel Vangelo di Matteo c’è un’annotazione che commenta l’attività taumaturgica di Gesù. Si trova al capitolo ottavo, ai versetti 16-17. Come spesso succede nel primo Vangelo, l’azione di Gesù viene commentata con un citazione profetica, in questo caso di Isaia: «Venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la parola e guarì tutti i malati, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: Egli ha preso le nostre infermità e si è caricato delle malattie». Ma c’è un particolare. Il testo originario di Isaia 53,4 afferma: Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori. Il profeta quindi non parla di malattie, termine invece volutamente introdotto da Matteo. Quasi a dire che l’attività di guarigione di Gesù non è una specie di magia, che non gli costa niente, ma è invece un liberare dalla malattia prendendola su di sé. In fondo la pastorale della salute dovrebbe essere anzitutto un portare insieme con il malato il peso della malattia, sapendo che in realtà chi l’ha presa realmente su di sé è il Signore. E questo è fonte di consolazione e di speranza.
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