Il 10 giugno 1999 le truppe della Nato firmavano un accordo importante con l’allora esercito della Yugoslavia: i serbi si sarebbero ritirati dal Kosovo, facendo entrare nella regione, due giorni dopo, la missione di pace Kfor (Kosovo Force, missione internazionale con il compito di riportare la pace). Era la fine della guerra e del governo di Belgrado sul piccolo vicino balcanico. Venti anni dopo molte cose sono cambiate, ma le ferite del passato non sono dimenticate. E com’è il Kosovo oggi? Quali i problemi e le sfide attuali? Sir ne parla con mons. Lush Gjergji, direttore di Radio Maria Kosovo, e con l’esperto dei Balcani Nikolay Krastev.
Le ferite del passato. Come nel resto dei Balcani però anche nel Kosovo si conferma un senso di “giustizia mancata” riguardo violenze subite, persone scomparse, criminali non puniti. “Né il Tribunale dell’Aja né quelli locali hanno soddisfatto le vittime e i parenti”, spiega mons. Gjergij, che racconta come “in occasione del 20° anniversario dell’intervento della Nato, ci sono troppe manifestazioni che ricordano le cose peggiori della guerra, i massacri, le atrocità, riaprendo vecchie ferite”.
Il Kosovo oggi. La vita a Pristina è migliorata molto, sono state ricostruite le case distrutte e la rete autostradale, i centri urbani sono cresciuti, è stato adottato l’euro e il tenore di vita è aumentato. Ma nonostante questo, “le aspettative della gente non sono soddisfatte” rileva Gjergij, spaventato dal “materialismo occidentale e dal consumismo esagerato arrivati anche da queste parti”. Tra le sfide maggiori il sacerdote kosovaro elenca “la disparità sociale, la grande emigrazione, la disoccupazione giovanile ma anche la corruzione dilagante e la mancanza di fiducia nei politici”. “Purtroppo – afferma – anche la speranza nell’adesione europea è venuta meno dopo il problema con la liberalizzazione dei visti e lo stand by dei negoziati”.
Cambiare i confini? A suo avviso, l’unica via d’uscita dalla situazione di stallo è “tornare al tavolo dei negoziati e creare l’atmosfera necessaria per il dialogo”. “Qui si intrecciano molti interessi, la Russia, gli Stati Uniti, che sembrano disponibili a una spartizione dei territori in base alla composizione etnica della popolazione”, sostiene. Ma “cambiare i confini è pericoloso perché creerebbe un precedente di cui si avvarrebbero Bosnia-Erzegovina, Macedonia del Nord eccetera”.
Il ruolo-chiave della Chiesa cattolica. Nel processo di riconciliazione e dialogo un ruolo-chiave è ricoperto dalla Chiesa cattolica nel Paese, impegnata a promuovere la pace e il perdono. “Oltre all’evangelizzazione e alla rievanegelizzazione delle persone, siamo vicini ai bisognosi con la Caritas e la Fondazione Madre Teresa”, racconta don Lush Gjergij. “Siamo molto impegnati inoltre nel dialogo interreligioso con i fratelli albanesi musulmani (la maggioranza) e in quello ecumenico con i serbo-ortodossi – aggiunge –, cercando di essere una Chiesa ‘ponte’ per creare l’unità nella diversità fra nazioni, culture, religioni e per una convivenza pacifica e fraterna”.