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Kosovo 20 anni dopo, il miraggio della pace

Iva Mihailova

Il 10 giugno 1999 le truppe della Nato firmavano un accordo importante con l’allora esercito della Yugoslavia: i serbi si sarebbero ritirati dal Kosovo, facendo entrare nella regione, due giorni dopo, la missione di pace Kfor (Kosovo Force, missione internazionale con il compito di riportare la pace). Era la fine della guerra e del governo di Belgrado sul piccolo vicino balcanico. Venti anni dopo molte cose sono cambiate, ma le ferite del passato non sono dimenticate. E com’è il Kosovo oggi? Quali i problemi e le sfide attuali? Sir ne parla con mons. Lush Gjergji, direttore di Radio Maria Kosovo, e con l’esperto dei Balcani Nikolay Krastev.

Le tappe successive. La storia del più giovane Stato balcanico è proseguita con la unilaterale dichiarazione d’indipendenza, proclamata il 12 febbraio 2008 e finora non riconosciuta dalla Serbia, dalla Russia ma anche da cinque Stati Ue. “È cambiato tanto da quel momento, per non dire tutto: il sistema politico, economico, sociale, culturale”, sintetizza mons. Lush Gjergij. “Dal punto di vista politico – precisa – c’è il pluralismo, ci sono le elezioni libere”. E racconta del lungo periodo di amministrazione da parte delle forze dell’Onu, “un’esperienza assai difficile e complessa”.

Le ferite del passato. Come nel resto dei Balcani però anche nel Kosovo si conferma un senso di “giustizia mancata” riguardo violenze subite, persone scomparse, criminali non puniti. “Né il Tribunale dell’Aja né quelli locali hanno soddisfatto le vittime e i parenti”, spiega mons. Gjergij, che racconta come “in occasione del 20° anniversario dell’intervento della Nato, ci sono troppe manifestazioni che ricordano le cose peggiori della guerra, i massacri, le atrocità, riaprendo vecchie ferite”.

Il Kosovo oggi. La vita a Pristina è migliorata molto, sono state ricostruite le case distrutte e la rete autostradale, i centri urbani sono cresciuti, è stato adottato l’euro e il tenore di vita è aumentato. Ma nonostante questo, “le aspettative della gente non sono soddisfatte” rileva Gjergij, spaventato dal “materialismo occidentale e dal consumismo esagerato arrivati anche da queste parti”. Tra le sfide maggiori il sacerdote kosovaro elenca “la disparità sociale, la grande emigrazione, la disoccupazione giovanile ma anche la corruzione dilagante e la mancanza di fiducia nei politici”. “Purtroppo – afferma – anche la speranza nell’adesione europea è venuta meno dopo il problema con la liberalizzazione dei visti e lo stand by dei negoziati”.

Ue e rapporti con Belgrado. Il giornalista di BloombergTV Bulgaria, ed esperto dei Balcani, Nikolay Krastev, concorda che “come per la Bosnia-Erzegovina, la prospettiva di adesione all’Unione europea rimane lontana”. “La gente non vede speranza per il futuro – rileva – e questo porta allo spopolamento delle campagne, standard di vita basso e favorisce le idee radicali”. A marzo sono stati fermati i negoziati per la normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia, condizione indispensabile per Belgrado per arrivare all’Ue. “La Serbia contesta la questione irrisolta con lo stato delle municipalità a maggioranza serba nel Nord del Kosovo”, spiega l’esperto, preoccupato dal fatto che “vent’anni dopo la fine della guerra, nei Balcani di nuovo si parla di spartizione dei territori, cercando una rivincita per le perdite del passato”. Lo confermano l’introduzione dei dazi che Pristina ha imposto a Belgrado e l’ostacolo della Serbia ad ogni tentativo di Kosovo di entrare in qualsiasi istituzione internazionale. “I serbi fanno fatica ad accettare un dato di fatto – afferma Krastev –: che il Kosovo esiste come stato sovrano” (nelle foto sotto, l’ingresso delle forze Nato a Pristina, capitale del Kosovo; un’immagine della città; il santuario cittadino dedicato a Madre Teresa).

Cambiare i confini? A suo avviso, l’unica via d’uscita dalla situazione di stallo è “tornare al tavolo dei negoziati e creare l’atmosfera necessaria per il dialogo”. “Qui si intrecciano molti interessi, la Russia, gli Stati Uniti, che sembrano disponibili a una spartizione dei territori in base alla composizione etnica della popolazione”, sostiene. Ma “cambiare i confini è pericoloso perché creerebbe un precedente di cui si avvarrebbero Bosnia-Erzegovina, Macedonia del Nord eccetera”.

Il ruolo-chiave della Chiesa cattolica. Nel processo di riconciliazione e dialogo un ruolo-chiave è ricoperto dalla Chiesa cattolica nel Paese, impegnata a promuovere la pace e il perdono. “Oltre all’evangelizzazione e alla rievanegelizzazione delle persone, siamo vicini ai bisognosi con la Caritas e la Fondazione Madre Teresa”, racconta don Lush Gjergij. “Siamo molto impegnati inoltre nel dialogo interreligioso con i fratelli albanesi musulmani (la maggioranza) e in quello ecumenico con i serbo-ortodossi – aggiunge –, cercando di essere una Chiesa ‘ponte’ per creare l’unità nella diversità fra nazioni, culture, religioni e per una convivenza pacifica e fraterna”.

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