Daniele Rocchi
Un villaggio gemellato con le sue rocce rossastre, quelle del massiccio al Qalamoun, mimetizzato come se ne avesse rubato i colori. Ti si apre davanti man mano che la strada sale fino a toccare i 1500 metri di altezza. Buche e crateri disseminati ovunque ti obbligano a una sorta di gimkana con la polvere che si alza ad ogni manovra di guida. Damasco è lontana solo 60 km, il confine con il Libano anche meno. È Maaloula roccaforte cristiana della Siria dove si parla ancora l’aramaico, la lingua di Gesù Cristo. Uno dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco, abitato da poche migliaia di cristiani che vegliano sulle sue chiese e monasteri come quello greco ortodosso di santa Tecla, discepola di san Paolo, e quello melkita del VI secolo Mar Sarkis, dei santi Sergio e Bacco. I due santuari rupestri sono uniti da una gola scavata nel corso di millenni da pioggia e vento. È qui, secondo la leggenda, che Santa Tecla avrebbe trovato rifugio dai suoi persecutori. Prima della guerra Maaloula era una meta di tanti pellegrini che da ogni parte del mondo ogni anno venivano a pregare tra queste montagne, in una delle culle del cristianesimo siriano.
Ferite ancora aperte. Oggi Maaloula è un villaggio che porta ancora addosso, chiari, i segni della guerra, ferite profonde inferte contro la comunità locale, sfregiata come le sue chiese, le sue icone, i suoi quadri, le sue statue. Qui si è combattuto per circa nove mesi, da settembre del 2013 a maggio del 2014. A ricordare quei lunghi giorni è padre Toufic Eid, parroco melkita della chiesa di san Giorgio. E lo fa dall’alto della grande roccia che sovrasta il villaggio, a ridosso del monastero dei santi Sergio e Bacco, dove non manca di pregare il Padre Nostro in aramaico:
“Maaloula era lo specchio della convivenza siriana – ricorda il sacerdote indicando il villaggio e le sue macerie -. Lo hanno voluto mandare in frantumi per dare un segnale forte. Militarmente e strategicamente Maaloula non aveva particolare importanza. Ma hanno attaccato un simbolo della cristianità, il luogo dove gli abitanti parlano ancora l’aramaico, la lingua di Gesù”.
La notizia della caduta di Maaloula in mano ai jihadisti fece il giro del mondo. Il villaggio fu conquistato e preso come base militare dai miliziani dell’allora Jabhat al Nusra (oggi Hay’at Tahrir al-Sham, ndr.), vicini ad Al Qaeda. Con loro, all’inizio, anche membri dell’opposizione armata del Free Syrian Army, che si erano accreditati come difensori dei cristiani locali. “Controllavano il villaggio dall’alto – spiega il sacerdote –. I terroristi, infatti, avevano occupato l’hotel al-Safir, divenuto il loro quartier generale arrivando a distruggere anche una statua della Vergine Maria, Signora della Pace, messa dai cristiani locali a protezione del villaggio”. L’hotel non esiste più, delle stanze nessuna traccia, solo una giostra piegata dalle bombe, piena di ruggine.
Fu l’inizio della devastazione. “Da quel momento in poi – aggiunge il parroco – furono solo distruzioni di case e di chiese, profanazioni, incendi, saccheggi, esecuzioni sommarie. Le suore di santa Tecla furono prese in ostaggio per circa 4 mesi. Lo stesso destino toccò a 6 giovani cristiani, cinque dei quali ritrovati poi morti. Del sesto, invece, non ab
biamo più notizie. Non sono stati gli unici martiri di Maaloula”. Ma i ricordi del sacerdote non si fermano qui. Emerge anche un particolare “l’accanimento dei terroristi verso le immagini sacre.
Le icone sono state tutte sfregiate, avevano paura di guardarle.
Hanno sfregiato i volti dei santi, del Cristo, mandato in frantumi le statue. Hanno fatto a pezzi gli altari, le iconostasi, il fonte battesimale”. “Ma la cosa che mi ha colpito di più è stato il rogo dei registri dei battesimi. È come se avessero voluto azzerare la nostra fede, ma non ci sono riusciti, perché siamo ancora qui” afferma con orgoglio padre Toufic. Poco distanti i resti di una statua di san Giorgio posta nel cortile della chiesa omonima dove da poco è stata rimessa una statua di santa Rita da Cascia, “restaurata da uno dei nostri giovani purtroppo morto in guerra”. Arrivano dei bambini che sfidando una pioggia inattesa si mettono a giocare nel piazzale. Il parroco li guarda e sorride: “sono un segno di vita da preservare. Il futuro di Maaloula passa per loro”. È anche per questi piccoli che si danna l’anima per riparare i danni della guerra.
Cinque anni dopo essere stata ripresa dall’esercito regolare siriano, Maaloula oggi si presenta quasi disabitata: “la popolazione è fuggita e ancora non ha fatto ritorno. Le case hanno bisogno di essere rimesse in piedi velocemente.
La comunità cristiana – dice il parroco – è composta adesso da circa 800 persone, poche rispetto alle oltre 3mila di qualche anno fa. Abbiamo restaurato la chiesa e, grazie anche alla Chiesa cattolica italiana, rimesso in piedi 190 abitazioni. All’appello ne mancano ancora 130, per una spesa totale di un milione di dollari. Stiamo ricominciando da zero grazie all’aiuto di tanti benefattori sparsi nel mondo.
La priorità è dare un tetto a chi non ce l’ha più e trovare il modo di continuare a vivere. Quest’anno ho celebrato solo un matrimonio, nessuno nel 2018. I battesimi si contano sulla dita di una mano. La vita qui è una grande sfida, sperare è una sfida. La ricostruzione delle abitazioni sta favorendo la ripresa del lavoro”. Ne è un esempio “un piccolo ristorante che ha riaperto i battenti da poco”. Un buon viatico per qualche pellegrino “che timidamente si sta riaffacciando da queste zone ora pacificate. Lo scorso marzo – rivela padre Toufic – sono arrivati qui sei occidentali. Sono stati accolti da alcune famiglie che per pochi dollari hanno offerto loro un letto e del cibo. Era accaduto anche in passato ma poi la guerra ha impedito di proseguire nell’accoglienza. Ma speriamo di riprendere”.
Una speranza condivisa con l’archimandrita Matta Reza, priore della comunità delle suore ortodosse
di Santa Tecla. I mesi passati nelle mani dei jihadisti che le avevano prese in ostaggio non hanno tolto il sorriso alle religiose che continuano la loro missione nel monastero “ripulito dal sangue dei combattenti, rimesso in piedi e reso di nuovo agibile”. “Si sono lasciate il passato alle spalle per avere pace nel cuore e per aiutare la gente a superare il momento. Guardano avanti nonostante tutto” afferma il priore che non esita a citare il passo evangelico di Luca, “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”. Non c’è tempo a Maaloula per guardare indietro. “Nonostante tutta la distruzione
la luce del Sepolcro ci ha illuminato. Le porte degli inferi non si sono aperte.
Per questo incoraggiamo le famiglie, le pietre vive di questa terra, a restare saldi nella fede” ribadisce l’archimandrita Reza. Un attimo di pausa prima di riprendere il discorso per dire quello che non ti aspetti:
“anche tra i jihadisti vi era gente buona, il bene è dappertutto”.
“I nostri cristiani in fuga da Maaloula sono stati salvati dai musulmani dei villaggi confinanti. Ricostruire è possibile, lo stiamo già facendo. Siamo figli della vita e chi crede nella vita può farlo. Ogni parola buona, ogni gesto di pace contiene un germe di Dio”. È quasi sera quando, uscendo da Maaloula in direzione Homs, sale il desiderio di lanciare un ultimo sguardo alla cima più alta, a quella roccia dove è tornata la statua di Maria, Signora della pace. A riportarla lassù sono stati cristiani e musulmani, insieme. Maaloula è tornata in buone mani.
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