Con il 54,21% dei voti il candidato del Partito repubblicano del popolo (Chp), Ekrem İmamoğlu, è il nuovo sindaco di Istanbul. Lo sfidante Binali Yıldırım, candidato dell’Akp, il partito del presidente Erdoğan, si ferma al 44,99%. İmamoğlu si conferma anche in questa seconda tornata elettorale del 23 giugno (dopo che le amministrative del 31 marzo erano state annullate dal Consiglio elettorale superiore (Ysk) per presunte irregolarità. Altissima l’affluenza alle urne: ha votato l’84,5%, quasi 8,8 milioni di persone su circa 10,5 milioni di aventi diritto. Dopo un quarto di secolo Istanbul sarà, dunque, governata dall’opposizione. Dell’esito del voto ne abbiamo parlato con Alberto Gasparetto, dottore di ricerca in Scienza politica e relazioni internazionali all’Università di Padova e autore di una monografia dal titolo “La Turchia di Erdogan e le sfide del Medio Oriente. Iran, Iraq, Israele e Siria” (Carocci, 2017).
Qual è l’importanza reale di questo voto se messo a confronto con quello del 31 marzo?
Rispetto a quello del 31 marzo, quello di domenica scorsa è stato certamente un voto dal significato più “politico”. Esso ha una portata nazionale e, probabilmente, anche internazionale. Le elezioni amministrative del 31 marzo, quelle in cui 5 delle 6 più grandi città turche sono finite alle opposizioni, sono state caratterizzate in gran parte dai dibattiti sulla situazione economica in cui versa il Paese. Anche se il voto amministrativo conserva una sua dimensione “locale”, è indubbio che la crescente disoccupazione, la costante svalutazione della lira, la perdita del potere d’acquisto da parte delle famiglie, la recessione economica sono fattori che hanno pesato molto sull’esito di quella tornata.
Cosa ha influito sull’esito di questa seconda tornata?
Va detto che sulla scelta di ripetere il voto, presa dal Supremo Consiglio Elettorale, ha pesato la pressione del Presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, che da tempo (già prima del fallito golpe del luglio di tre anni fa) è il dominus della politica turca. Per molto tempo, il popolo turco ha saputo premiare Erdoğan e il suo partito, l’AK Parti, riconoscendo in lui l’artefice del “miracolo” turco, un Paese che usciva male da una forte crisi politico-economica-istituzionale fra la fine degli anni Novanta e i primissimi anni del nuovo secolo. Per anni, i turchi hanno premiato un nuovo soggetto politico e il suo leader per le notevoli performance economiche (prima della crisi economica, il Paese è cresciuto al ritmo medio del 7% annuo) e per aver saputo riportare la Turchia al centro della geopolitica. Benessere e prestigio costituiscono un po’ la sintesi del successo di Erdoğan e dell’AK Parti. Nemmeno le inchieste giudiziarie che avevano colpito il partito del 2013 sembravano averne scalfito il consenso. Tant’è vero che lo stallo politico seguito all’esito del voto politico del giugno 2015 fu superato da una roboante vittoria di Erdoğan e dell’AK Parti alla ripetizione del voto nel novembre dello stesso anno.
Questa volta il “miracolo” non c’è stato.
Cosa non ha funzionato?
La repressione delle opposizioni, l’incarcerazione dei leader politici curdi, le epurazioni di regime che hanno portato a decine di migliaia di licenziamenti e arresti nella pubblica amministrazione (Scuola, Università, Magistratura, Forze armate), la spinta verso una politica aspramente divisiva sono fattori che, oggi rispetto al recente passato, una fetta ormai più consistente dell’elettorato fa pesare a un Erdoğan apparentemente non più in grado di arginare le conseguenze negative della situazione economica.
Chiedere a gran voce la ripetizione del voto, sfidare quella dimensione di democrazia che ancora resta in piedi in Turchia (le elezioni) è stata una mossa fatale all’AK Parti e a Erdoğan. Un politico scaltro e capace che, abbarbicato al potere, sembra ormai aver perso ogni contatto con la realtà.
Quale impatto potrà avere questo voto sulla politica interna della Turchia?
Un grande impatto. Anche se può apparire prematuro sbilanciarsi, potremmo essere verosimilmente davanti a una svolta. Proprio per le ragioni che dicevo poco fa. A livello interno, il prossimo grande appuntamento elettorale saranno le presidenziali del 2023 (un anno simbolico, peraltro, poiché rappresenta il centenario della nascita della Repubblica): un’era geologica ci separa da questo evento e tutto può accadere. E’ evidente che ormai
si è innescata una nuova potenziale macchina del consenso basata su una nuova narrazione, quella dell’“amore radicale” del nuovo sindaco di Istanbul. Gli istambulioti così come molti altri nel Paese ne sono rimasti affascinati.
Quali sono i tratti di questa “nuova narrazione” di Ekrem Imamoğlu?
Imamoğlu si propone di decostruire la logica “populista” e divisiva su cui si basa il discorso politico di Erdoğan e di cui i turchi si stanno dimostrando un po’ stanchi. Secondo Imamoğlu, il populismo e la polarizzazione sono trend globali che hanno avuto successo, la Turchia ne rappresenta un caso emblematico, in base al vecchio adagio “divide et impera”. Al contrario,
l’“amore radicale” propugna l’idea di abbracciare tutti, senza divisioni, recuperando una dimensione amicale della politica
che sembrava relegata nelle monografie di alcuni filosofi politici visionari e un po’ naïf. Staremo a vedere fino a che punto il regime turco potrà tollerare questa sfida alla propria legittimità. A livello di politica interna, il vero problema ruota attorno al fatto che ormai, dopo il fallito golpe del 2016, tutte le principali istituzioni del Paese sono controllate dal Presidente.
E quale l’impatto sulla politica estera?
La Turchia è un Paese strategico sotto il profilo geopolitico. Non è soltanto collocata geograficamente all’incrocio fra diverse continenti, subcontinenti e civiltà, ma per anni si è erta a mediatrice delle dispute in Medio Oriente e, anche se dopo le rivolte arabe del 2011 ha sciupato molto del suo prestigio, rappresenta o può rappresentare ancora un soggetto centrale in diverse questioni che spaziano dal conflitto israelo-palestinese agli equilibri in Nord Africa, dalla disputa fra Qatar e Paesi del Golfo, alla questione del nucleare iraniano, fino alla delicata situazione in Siria. Su quest’ultimo punto, a cui si lega l’accordo sui migranti con l’Ue risalente al marzo 2016, l’importanza della Turchia verrà certamente richiamata. Finora i membri dell’Ue hanno tentennato, a causa delle perenni divisioni, mentre al contrario Erdoğan ha avuto la meglio, potendo anche vantarsi col suo popolo di essere il Paese al mondo più solidale rispetto al dramma dei rifugiati. Eppure, proprio perché il Partito repubblicano del popolo (CHP) e Imamoğlu si candidano a sfidare l’AK Parti e Erdoğan fra quattro anni, l’Ue ha la grande chance di rimettere sul tavolo della trattativa lo “scambio” fra migranti e rispetto delle garanzie costituzionali interne. E, visto l’esito del voto, forse lo potrà fare con un maggiore potere negoziale per mettere ancor più sotto pressione la leadership di Erdoğan.
Imamoglu ha dimostrato che battere Erdogan è possibile. Istanbul, come spesso accade, sarà per lui (come lo è stato per Erdogan) un trampolino di lancio?
Erdoğan ha sempre “spavaldamente” dichiarato che “chi vince a Istanbul, vince in tutta la Turchia”. E’ vero, Istanbul è una città carica di simboli e centrale nell’economia turca. La stessa carriera politica di Erdoğan comincia di fatto nell’ex capitale dell’Impero ottomano proprio 25 anni fa con la carica di sindaco. Istanbul è centrale poiché è una megalopoli che conta almeno 15 milioni di abitanti (quasi un quinto dell’intero Paese), da sola contribuisce ad un terzo del prodotto nazionale lordo e ha a disposizione un budget di 4 miliardi di dollari.
Per queste ragioni, perdere Istanbul può significare molto in relazione al potere di Erdoğan. E’ grazie al controllo delle finanze che l’AK Parti ha potuto finanziare i progetti faraonici che hanno determinato la crescita economica della Turchia. Decidere come, quanto e quando spendere i soldi significa scegliere quali gruppi sociali favorire, quali progetti siano meritevoli di essere finanziati, in patria come all’estero, comporta decidere il destino di un Paese.
In particolare, come sottolineato in campagna elettorale proprio da Imamoğlu, solo il 40% del budget di Istanbul è stato finora controllato direttamente dall’amministrazione, mentre il restante 60% è stato affidato e gestito con procedure scarsamente trasparenti da 28 aziende private legate a Erdoğan. Molti finanziamenti sono anche finiti nelle mani di fondazioni caritatevoli sempre legate al Presidente.
Qual è, a suo parere, la sfida principale che avrà davanti il nuovo sindaco?
La sfida che avrà di fronte il nuovo sindaco di Istanbul, che proviene da una famiglia che possiede un’azienda di costruzioni, sarà quella di
evitare di farsi inghiottire nelle logiche di spartizione clientelari
che hanno dominato la politica economica turca degli anni di Erdoğan. Favorire il dialogo fra parti contrapposte, ricomporre il conflitto, professare le parole dell’ “amore radicale” significa proprio andare nella direzione opposta tracciata dall’AK Parti. Anche qui, è prematuro sbilanciarsi, sebbene un segnale sia già apprezzabile: la compostezza con cui Imamoğlu aveva accolto la decisione di ripetere il voto presa dal Supremo Consiglio Elettorale turco.
Grazie al suo carisma e alla sua personalità, il neo-sindaco potrebbe rappresentare il nuovo punto di riferimento per una variegata fetta dell’elettorato turco, dai conservatori ai laici financo ai curdi. Soltanto il suo mandato saprà rivelare fino a che punto sarà in grado di estendere a livello nazionale il suo consenso.
Al momento, sebbene molti analisti lo vedano già proiettato verso le elezioni del 2023 per contendere a Erdoğan la carica di Presidente, Imamoğlu ha dichiarato che il compito di cui è stato investito è amministrare bene la sua città. Ad ogni modo, la macchina della nuova narrazione è all’opera. Si resta in attesa di vedere cosa accadrà.
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