“Ci vantiamo anche nelle tribolazioni,sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude…” cita san Paolo, la lettera ai Romani, padre Raimondo Girgis, superiore del Memoriale di San Paolo a Damasco, per raccontare come i siriani stanno vivendo la guerra che dura oramai da oltre 8 anni. E non poteva essere altrimenti visto che siamo a pochi metri dalla grotta dove, secondo la tradizione, Saulo di Tarso ribattezzato poi Paolo, fariseo e cittadino romano, folgorato, cadde da cavallo e si convertì, passando così da persecutore della prima chiesa di Gerusalemme e delle prime comunità cristiane della Palestina, ad apostolo della resurrezione di Cristo fuori dalla Terra Santa, fino a Roma, dove fu decapitato. “Siamo a Tabbaleh, una zona popolare della capitale siriana” dice il francescano mentre mostra il convento voluto da Papa Paolo VI “per accogliere i pellegrini sulla via di san Paolo”. “Prima della guerra – ricorda – arrivavano in Siria centinaia di migliaia di pellegrini. Molti sostavano qui ma ora è tutto cambiato. Al posto dei pellegrini accogliamo famiglie sfollate, povere e persone malate con i loro familiari che vengono a Damasco per curarsi. Non facciamo distinzioni di fede e di etnia”. La guerra ha cambiato drammaticamente il volto della Siria e i francescani si sono fatti trovare pronti, fedeli alla loro missione – la stessa da 800 anni in Terra Santa – il cui simbolo è il Crocifisso di san Damiano: “Francesco va e ripara la mia casa”.
La tribolazione. Per padre Raimondo, per padre Bahjat Elia Karakach, guardiano del vicino convento della Conversione di San Paolo e per padre Ibrahim Alsabagh, parroco latino di Aleppo, tutti francescani della Custodia di Terra Santa, oggi la “casa” si chiama Siria. Così per tutti i loro confratelli. “Ma non sono solo i muri delle case che devono essere riparati – si affretta a dire padre Raimondo –
vanno rinsaldati anche i cuori e gli animi della gente.
Vorremmo fermare la guerra dove ancora si combatte (a Idlib, ndr.), vorremmo poter vivere le nostre vite senza dover contare sugli aiuti esterni. Purtroppo versiamo in una grave crisi economica resa ancora più dura dall’embargo Usa e Ue. Difficile rialzare la testa in questa situazione, ci vorranno decenni”.
“La gente è stanca, sconfortata e disillusa – conferma il francescano, vicario apostolico latino di Aleppo, mons. George Abou Khazen – molti dicono di aver sbagliato a rimanere qui.
Soffriamo la mancanza di medicine, di gas da cucina, di benzina e di gasolio a causa delle sanzioni”. La tribolazione dei siriani ha il volto degli sfollati, dei profughi degli amputati, dei bambini traumatizzati dalle bombe, dei senza lavoro, degli anziani rimasti soli, delle famiglie spezzate, delle donne abusate. “Per questo motivo – ribadisce padre Raimondo – i siriani hanno bisogno di gesti concreti di ricostruzione che infondono certezze in vista di tempi migliori. Da soli non riusciremo mai a ricostruire il nostro Paese. Serve l’aiuto internazionale”.
La pazienza e la virtù provata. “La fede è stata il motivo della resistenza di tanti siriani in questi anni di guerra – dice mons. Abou Khazen – .
Noi cristiani eravamo pronti a perdere tutto, i beni materiali e la vita. Ma non avremmo mai rinunciato alla nostra fede.
E anche per gli altri credenti mi sento di dire lo stesso. La tribolazione produce pazienza, scrive san Paolo, e così sta accadendo. La chiesa ha dato un bel segno: nessun prete, nessun parroco, nessun religioso o religiosa, nessun vescovo, ha lasciato la Siria. Siamo rimasti qui con la gente, e questa vicinanza ha infuso coraggio. Abbiamo visto molte conversioni, ci sono stati tanti cristiani che, provati in questo tempo di difficoltà, hanno riscoperto la fede e si sono riavvicinati. Ad Aleppo abbiamo anche celebrato un sinodo interrituale delle sei chiese cattoliche (latina, maronita, caldea, melkita, armena, siro-cattolica), ispirato ai discepoli di Emmaus e durato oltre un anno. Il Sinodo ha ribadito la nostra missione: essere promotori di pace e di unità nel Paese”. “Tutte le chiese cristiane durante la guerra e ancora oggi – dichiara padre Elia, rimasto illeso il 18 novembre del 2016 nello scoppio di un razzo che ha distrutto la cupola della sua chiesa – hanno offerto aiuto materiale e morale dando testimonianza di unità, mostrando il volto di Dio accogliendo tutti senza distinzione”.
La speranza. Dalle parrocchie di Damasco a quella di Aleppo è lunga la lista di programmi di solidarietà messi in piedi dalla Custodia di Terra Santa, con l’aiuto della sua ong Ats (Associazione di Terra Santa) e di altri benefattori, tra i quali la Conferenza episcopale italiana. Progetti che infondono speranza concreta ai siriani, musulmani e cristiani, che possono tornare a credere in una nuova vita. “Da tre anni – racconta padre Raimondo – abbiamo attivato un programma di sostegno psicologico per i bimbi traumatizzati dalla guerra. 12 volontari, due giorni a settimana, si occupano di 150 bambini, in larga maggioranza musulmani. Si tratta di piccoli che sono stati testimoni di efferatezze e violenza. Molti di loro abitano nei quartieri Est della città, i più segnati dalla guerra. Il progetto punta a far rinascere in loro la gioia e la voglia di stare insieme. Da noi giocano, suonano strumenti musicali, disegnano. È dai disegni che si percepisce tutto il loro disagio: armi, carri armati, aerei da guerra, bombe, sono i soggetti che ricorrono più spesso, come anche il colore rosso, quello del sangue”.
Un progetto analogo è stato lanciato ad Aleppo da padre Firas Lufti nel Terra Santa Center. Nella parrocchia di san Francesco di Aleppo, il parroco padre Ibrahim ha iniziato nel 2016 un progetto per ridare una casa a chi l’aveva persa a causa della guerra. “Inizialmente – spiega – siamo intervenuti sulle abitazioni quasi totalmente distrutte, poi su quelle parzialmente danneggiate e infine su quelle lievemente colpite. Solo nel 2016, in piena guerra, abbiamo riparato 256 case. Fino ad oggi ne abbiamo restaurate oltre 1400. E l’opera continua grazie al contributo della Cei. I vescovi italiani ci hanno aiutato anche ad assistere la popolazione con pacchi alimentari, medicine e visite, aiuto alle madri in attesa. Grazie alla generosità della Chiesa italiana abbiamo potuto sostenere tanti giovani desiderosi di avviare delle piccole imprese.
Non si tratta solo di dare pane ma di offrire vicinanza. La solidarietà diventa così un atto liturgico”.
La guerra ha prodotto nuove emergenze cui, avverte padre Ibrahim, “bisogna fare fronte. Penso ai militari in congedo, molti dei quali feriti e amputati che dopo otto anni di guerra si ritrovano con un nulla in mano perché impossibilitati fisicamente. Per loro abbiamo pensato ad un ufficio di assistenza legale. Penso alle giovani coppie che non riescono a sposarsi. Come regalo di nozze doniamo l’affitto per un anno di una casa, oppure un elettrodomestico, il restauro dell’abitazione. Non posso dimenticare – sorride padre Ibrahim – due sposi italiani che hanno donato le proprie fedi nuziali per aiutare una coppia di giovani siriani a sposarsi”.
“La speranza poi non delude…”. Al fronte di guerra in Siria i francescani rispondono con un “fronte di pace”, fatto da tanti gesti e segni di solidarietà portati avanti da volontari e benefattori. “È questa la speranza che non delude che rafforza il corpo e lo spirito, che aiuta a sprigionare vitalità e creatività – dice padre Elia –.
Mi piace ricordare che san Paolo è venuto a Damasco come un terrorista, un persecutore. Poi qui ha conosciuto Dio. Speriamo che da Damasco il terrorismo, la cultura della guerra, del rifiuto dell’altro possano estinguersi per fare posto a una cultura di pace e di tolleranza”.
Come ricorda la Croce di san Damiano che mostra Cristo “ferito e forte” allo stesso tempo. Come la Siria di oggi…