I fogli bianchi stretti tra le loro mani, piegati o arrotolati quasi a nasconderne il contenuto. Macchie nere e rosse una vicina all’altra, poi solo qualche linea verde dalla timida forma di un fiore. E niente altro. Siamo nel campo di sfollati interni (Internal displaced people, Idp) di Al-Shohadan, a Amaryat Al Fallujah, circa 70 km. ad ovest di Baghdad. Qui vivono 3200 famiglie, in larga parte provenienti dal Governatorato di Anbar. In queste tende e baracche hanno trovato riparo durante la guerra contro lo Stato islamico (Isis) di al Baghdadi che il 29 giugno 2014, da Mosul appena conquistata, aveva annunciato la costituzione del Califfato. Un’occupazione durata due anni e più con Falluja – definita capitale irachena dell’Isis – Sinjar e Tikrit controllate dai jihadisti con le bandiere nere. Le ferite di quegli anni sono descritte tutte in quei fogli e a raccontarle sono le stesse donne del campo. Un tempo rifugio, oggi quasi una prigione. Qui gli echi della possibile visita del Papa in Iraq nel 2020 ancora non sono arrivati.
“Non abbiamo più nulla, le nostre case sono state tutte distrutte, le terre saccheggiate. Molti dei nostri uomini hanno perso la vita durante la guerra”
gridano due donne anziane rivolgendosi ad una delegazione di Caritas Iraq giunta al campo insieme a rappresentanti di Caritas Internationalis, di Caritas europee (Italia, Belgio, Spagna e Germania) e del Crs (Catholic Relief Services, Usa). C’è aria di protesta al centro, gli sfollati sono in rivolta perché, dicono le donne, “l’esercito iracheno che lo controlla ha ridotto l’erogazione di energia elettrica. Inoltre non ci passano medicine sufficienti per curare i nostri malati e non ci viene permesso di uscire”.
Basta guardarsi intorno per capire le condizioni in cui versano gli sfollati, molti dei quali sono bambini e giovani. La temperatura in questi giorni di estate arriva a toccare i 43-44 gradi e stare dentro le tende o nei container è impossibile. Mustafà mostra la sua tenda, “in pochi metri quadrati dormiamo in 11, due famiglie”. Un arrugginito condizionatore sputa aria nemmeno troppo fresca all’interno. Un’altra tenda posizionata a lato è usata come cucina e sala da pranzo. Sopra una piastra elettrica sono state riposte alcune pentole. Non si vedono sedie o tavoli.
Una condizione condivisa con il resto degli abitanti del campo. Moltissime tende sono vuote. In tanti sono andati via per rientrare nelle loro abitazioni, o in quel che resta, dopo la cacciata dell’Isis. Il vento, il sole, la pioggia e l’incuria le hanno rese inutilizzabili. Stanno lì a ricordare, come in un fermo immagine, un tempo che nessuno vorrebbe più rivivere.
Un’oasi nel deserto. Al campo Al-Shohadan le ferite di oggi si sommano a quelle di ieri. E così i traumi. Per alleviare le sofferenze dei residenti nel campo, Caritas Iraq – con il sostegno di Caritas Germania e del Governo tedesco – ha realizzato un centro educativo e sanitario. Una vera e propria oasi nel deserto del campo. Sotto un gazebo circondato da piante e fiori, con un sottofondo musicale, gruppi di ragazzi sono intenti a studiare inglese con una operatrice, altri più piccoli giocano, disegnano e colorano. Colori brillanti, su un foglio prende forma un arcobaleno, segno di un desiderio di pace che tra queste tende vuol dire “uscire dal campo per tornare a una vita normale nel proprio villaggio”.
Oggi, poi, è festa grande. L’arrivo della delegazione Caritas coincide anche con l’inaugurazione di un campo di calcetto in erba sintetica. Un tappeto verde brillante che si staglia tra gli spazi sabbiosi del centro. Per l’occasione è stata organizzata anche una partitella, con tanto di premiazione e maglie da gioco nuove di zecca. In un prefabbricato poco distante è in corso una sessione di sostegno psicologico inserita all’interno di un programma di Caritas Iraq per donne traumatizzate. “Molte donne che sono qui – dice il direttore di Caritas Iraq, Nabil Nissan – hanno riportato vari traumi durante la guerra e con questo programma cerchiamo di aiutarle a riprendere una vita per quanto possibile normale”.
Il foglio di Amal. Amal è una di queste. Il foglio bianco, dove su indicazione della psicologa ha tracciato la storia della sua vita, è tutto punteggiato di macchie nere e rosse. Le tonalità tenui di rosa e viola sono riservate ai ricordi di scuola e della sua infanzia. “Daesh (Stato islamico) – dice tra le lacrime – mi ha rubato la vita. Non ho più casa, terra, marito morto durante la guerra. Ho un figlio di 12 anni gravemente malato che avrebbe bisogno di essere operato. Ma l’intervento costa 10 mila dollari una cifra che non possiedo. Passo la mia vita ad assisterlo.
Di notte non dormo mai perché sono sempre lì accanto a lui per vedere se respira. Ho paura che muoia”.
Parla mentre indica la macchia nera più grande sul foglio.
Le altre donne ascoltano in silenzio. Stringono i loro fogli, li piegano, li sgualciscono nervosamente. Le loro storie, in fondo, sono le stesse di quella di Amal. Si avvicina la psicologa che rivela:
“Amal ha finito il suo corso di sostegno psicologico ma nonostante ciò torna ad ogni incontro. La vicinanza delle altre donne è tutto ciò che ha e se lo tiene stretto”.
Gli incubi di Hamad. Intanto dal campo di calcetto il fischio finale dell’arbitro scatena l’euforia dei giocatori in maglia gialla che alzano la coppa dei vincitori. Hamad, 15 anni, sfollato dalla zona di Al Qa’im, al confine con la Siria, appoggiato alla rete, li osserva e applaude. Non ha preso parte alla partita ma sembra comunque divertito. Con lui un gruppetto di amici.
Ha voglia di parlare. Ma il suo racconto ben presto prende la piega di uno sfogo: “sono sfollato qui a Al-Shohadan da due anni. Ho lasciato Al Qa’im a causa dell’arrivo di Daesh.
Nel mio villaggio ho visto gente ammazzata senza motivo dai jihadisti. Hanno ucciso tutti coloro che avevano parenti nell’esercito o che lavoravano per lo Stato, sgozzato persone davanti ai nostri occhi e non capivamo perché. Tra loro anche dei nostri amici”.
I ricordi si rincorrono: “Lo Stato islamico aveva chiuso le scuole. Le uniche funzionanti erano quelle coraniche dove veniva praticato un vero e proprio indottrinamento. Queste madrasse erano aperte in particolare per i figli dell’Isis. Così – ricorda Hamad – passavamo le nostre giornate in casa. Uscire era troppo pericoloso. Potevi essere fermato con l’accusa di non partecipare alla preghiera. Qualcuno per questo motivo è stato ucciso o messo in carcere. Altri sono stati portati via, forse in Siria, e di loro non abbiamo saputo più nulla. Daesh aveva vietato anche l’uso della rete: esistevano degli internet point. Se ti trovavano a consultare dei siti non corrispondenti ai loro dettami venivi arrestato dai miliziani. Questi ultimi non erano solo iracheni e siriani, ma anche pakistani, indiani, afgani, uzbeki, cinesi. Stranieri che non parlavano arabo ma pronti ad uccidere per niente. Non dimenticheremo mai ciò che abbiamo visto”. Ricordi che “molti notti diventano degli incubi. Fortunatamente qui nel campo abbiamo un sostegno psicologico”. “Il mio sogno?”.
La risposta di Hamad giunge senza esitazione. Giusto il tempo di guardare i suoi amici vicino a lui quasi a cercare un appoggio: “il mio sogno, anzi
il nostro sogno è tornare al villaggio e finire gli studi.
Vivere tranquilli in pace. Con gli studi siamo rimasti indietro a causa della guerra. Qui studiamo e speriamo di recuperare il tempo perso. Crediamo nella pace se questo significa tornare a casa. Purtroppo
non sappiamo se la nostra terra potrà mai tornare quella di un tempo”.
Dietro il campo di calcetto alcuni ragazzi innaffiano delle piante coltivate in un piccolo orto. Cercano di rubare terra al deserto che li circonda. Nel campo Al-Shohadan anche così si coltiva la speranza.