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Afghanistan. Bertolotti (Cemiss): “Destino del Paese nelle mani di Usa e Talebani”

Daniele Rocchi

“Afghanistan contemporaneo. Dentro la guerra più lunga”: è il titolo del libro di Claudio Bertolotti, capo ricercatori del Centro Militare di Studi Strategici (Cemiss) presentato oggi a Roma alla presenza, tra gli altri, del ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. Nel testo si affronta, in maniera approfondita, il ruolo dell’Afghanistan a livello geopolitico e se ne descrivono le società, le culture, le alleanze e i rapporti conflittuali tra le varie comunità, clan e etnie che lo compongono. A margine della presentazione il Sir ha incontrato l’autore per fare il punto sugli ultimi sviluppi nel Paese segnato da una situazione conflittuale e di guerra che va avanti da oltre 40 anni. Di questi gli ultimi 18 hanno visto l’impegno della comunità internazionale.

Claudio Bertolotti

Perché scrivere un libro sull’Afghanistan, paese in guerra quasi mai al centro dell’attenzione dei media e dell’opinione pubblica?

Credo che la guerra in Afghanistan non sia ancora finita. Lo stesso vale per la missione della Comunità internazionale. Si tratta di un impegno iniziato con uno strumento militare e che deve poter proseguire con altri mezzi, uno dei quali è la cooperazione internazionale.

Qual è l’importanza strategica dell’Afghanistan nel panorama geopolitico attuale?
L’Afghanistan si trova al confine di grandi potenze, come la Cina, che hanno interessi particolari nella stabilità dell’area. Pechino ha acquistato l’80% dei diritti estrattivi in territorio afghano, dai minerali preziosi, al petrolio, agli idrocarburi. E fin quando l’Afghanistan non sarà stabilizzato la Cina non potrà accedere a queste risorse. L’Afghanistan, inoltre, rappresenta un prezioso retroterra strategico per il Pakistan in un eventuale conflitto con l’India. Altro attore regionale che guarda all’Afghanistan è l’Iran. Il Paese degli Ayatollah vuole un Afghanistan stabilizzato e con un livello di conflittualità contenuta ma tale da tenere gli Usa impegnati. Questi ultimi traggono significativi vantaggi dalla loro presenza in Afghanistan. Hanno un accordo con il Governo afgano per rimanere all’interno di basi ad uso esclusivo fino a tutto il 2024. Ovviamente l’accordo è rinnovabile. Basi strategiche che potrebbero essere usate per operare in tutti i Paesi confinanti, l’Iran, la Cina, parte della Russia, le repubbliche centro-asiatiche, il Pakistan e tre quarti dell’India.

Si tratta di un Paese strategico anche per la galassia terroristica…
Oggi l’Afghanistan, così come lo è stato negli ultimi 30 anni, rappresenta una specie di ‘zona franca’ per gruppi terroristici e molte fazioni di opposizione armata di orientamento jihadista, che sul suo territorio hanno posto le loro basi. A fianco della storica presenza di Al Qaeda, si sta imponendo anche quella dello Stato Islamico Khorasan, variante afgana di quel che fu lo Stato islamico.

I talebani non sono annoverati tra i terroristi. La comunità internazionale, consapevole del fatto che controllano il 40% del Paese, li ha definiti insorti, facendoli di fatto diventare interlocutori con i quali negoziare per raggiungere un accordo che possa portare, se non ad una stabilità, ad una conflittualità di basso livello.

Recentemente a Doha si sono svolti dei nuovi round negoziali tra Usa e i Talebani. Sembra che un accordo sia stato raggiunto. Siamo ad una svolta?
Io credo che bisogna essere molto realisti perché i negoziati con i talebani vanno avanti dal 2007. L’ultima fase negoziale si è aperta nel 2018, con un’accelerazione al gennaio di quest’anno. Gli Usa appaiono molto più decisi a svincolarsi dalla guerra in Afghanistan e dunque aperti a maggiori concessioni che in passato. Tuttavia non sono disposti ad accettare un totale disimpegno militare. In questo ultimo round negoziale si è assistito ad un passo avanti per arrivare ad un cessate il fuoco. Nodo del contendere è la scelta di una data per il disimpegno Usa che i talebani vorrebbero stabilita entro l’anno mentre gli Stati Uniti entro 18 mesi.

Purtroppo il cammino negoziale è costellato da una serie di attacchi. Gli ultimi nella provincia di Wardak, a Kandahar e ad Herat, con molti morti e feriti…
La violenza aumenta perché al di là delle parole e degli accordi teorici presi al tavolo negoziale, ognuno degli attori, Usa e Talebani, vuole consolidare la propria posizione di forza. Questo è possibile solo continuando a colpire la controparte. Da questi dialoghi, è bene ricordarlo, è escluso il Governo afghano che è stato invece presente, con rappresentanti della società civile, ai negoziati sponsorizzati da Germania e Qatar. Appare chiaro che

le sorti del Paese sono nelle mani di Usa e Talebani.

Le forze di sicurezza afgane non sono in grado da sole di fronteggiare l’offensiva talebana. Ora non è detto che la leadership talebana presente ai negoziati riesca a far digerire eventuali compromessi raggiunti a tutta la galassia talebana che non è affatto monolitica. Da una parte la fazione più pragmatica, moderata composta da gruppi di potere più anziani, e dall’altra l’ala più giovane, radicale e disposta a combattere.

Il voto presidenziale, slittato al 28 settembre, potrà pesare sulla ricerca di un accordo?
Il voto è uno degli obiettivi propagandistici dei talebani: essere riusciti a farlo slittare al 28 settembre, da aprile prima e luglio dopo, è servito a dimostrare che il Governo è incapace di governare. Questo purtroppo è un dato di fatto emerso già nelle precedenti elezioni che portarono non solo alla elezione dell’attuale presidente, Ashraf Ghani, ma anche all’inserimento di una nuova figura, il Primo Ministro esecutivo, che non esiste nell’Ordinamento costituzionale afgano e creata ad hoc per dare un posto di potere al suo competitor, Abdullah Abdullah.

Oggi ci troviamo in una situazione peggiore a quella di 5 anni fa. Quasi la metà del paese è fuori del controllo delle forze governative e il rischio di brogli e di influenza da parte talebana andrebbe a inficiare il risultato delle urne.

Nel Paese è presente la missione internazionale “Resolute Support”. Che futuro potrà avere se andrà in porto un eventuale accordo?
“Resolute Support” ha sostituito la missione Isaf dal 1 gennaio del 2015 e ha cambiato i presupposti dell’impegno militare in Afghanistan. Isaf prevedeva assistenza alla sicurezza, con i militari che affiancavano quelli afgani anche sul campo di battaglia. “Resolute Support” invece prevede l’addestramento, assistenza e consulenza alle forze afgane. Un ridimensionamento che ha evidenziato le gravi lacune presenti nelle Forze di sicurezza afgane che, seppur forti di 300mila unità, non sono in grado di contrastare i talebani perché prive di sufficienti capacità tecniche ed operative. L’Italia è tra quei Paesi che hanno ridotto l’impegno ma va detto che siamo tra le Nazioni che hanno fornito sempre grandi numeri alla Nato in Afghanistan. Oggi con 800 uomini siamo il quarto contingente e abbiamo la responsabilità dell’area di Herat, particolarmente estesa. Nel futuro è verosimile che la missione verrà ulteriormente ridotta con un impiego limitato all’interno delle grandi basi nelle capitali provinciali.

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