A 100 anni dalla nascita la figura di Primo Levi si è conquistata un posto di primo piano sia per la testimonianza dell’olocausto sia, e forse più ancora, per l’impegno civile, “educativo”, con cui lo scrittore torinese ha vissuto gli anni del dopoguerra, fino alla morte, di cui non sono chiare le circostanze (1987). “Scrivo perché sono un chimico”, era quasi il suo slogan: è il bisogno di conoscere nel profondo la “sostanza delle cose” che spinge Primo Levi alla scrittura come all’impegno antifascista e partigiano.
Ma soprattutto l’identità ebraica – rituali, linguaggio, costumi – rimane il suo riferimento fondamentale, ben oltre la pratica religiosa. Uno dei libri più importanti, “Il sistema periodico” si apre con il capitolo (“Argon”) dedicato ai gas inerti: quelli che non si mescolano con altri elementi. E come i gas inerti sono gli ebrei piemontesi, sefarditi venuti dalla Spagna e dalla Provenza, insediati nelle cittadine di provincia che facevano la forza dell’antico Piemonte – a Torino invece si sentivano meno sicuri. Scavando nella lingua che mescola italiano e yiddish, piemontese ed ebraico Levi ritrova i caratteri del suo piccolo mondo subalpino, dove le parole sembrano avere sempre almeno due significati, e raccontare storie diverse a seconda che si stia parlando “in famiglia” tra ebrei, o in pubblico. “A-issà è la Madonna (vale semplicemente ‘la donna’); del tutto criptico ed indecifrabile, ed era da prevedersi, è il termine ‘Odò’ con cui, quando proprio non se ne poteva fare a meno, si alludeva al Cristo, abbassando la voce e guardandosi attorno con circospezione: di Cristo è bene parlare il meno possibile (…)”.
Da tali radici Primo Levi ricava quel sentirsi straniero che lo accompagnerà per tutta la vita, prima e dopo il lager.
“La tregua”, il grande diario del ritorno da Auschwitz, è come un’odissea attraverso l’Europa: nel campo come lungo le vie del tortuoso ritorno (Polonia, Russia, Moldavia, Romania, Ungheria, Austria, Germania…) ovunque domina la sensazione di estraneità, la fatica del riconoscersi. Quel viaggio di liberazione non può non ricordare la figura dell’Ebreo Errante, il mito che ha accompagnato lungo i secoli gli incontri e i confronti tra le culture cristiane d’Europa e la diaspora ebraica.
La stessa fatica si ritrova, nella memoria, anche nella Torino della giovinezza, e ben prima delle discriminazioni razziali. Sempre nel “Sistema periodico” ricorda: “Ci proclamavamo nemici del fascismo, ma in effetti il fascismo aveva operato su di noi, come su quasi tutti gli italiani, estraniandoci e facendoci diventare superficiali, passivi e cinici” (Oro).
Primo Levi cercherà per tutta la vita di individuare e descrivere questa condizione di straniero, andando a scovarne le cause storiche e politiche, i pregiudizi di razza e la doverosa riscossa civile del dopoguerra.
Dalla ricerca è uscito un lavoro letterario di prim’ordine, e una “lezione di memoria” da cui non si può prescindere. Ma non una risposta convincente alla domanda originaria. Al fondo della sua riflessione – appassionata e angosciata, carica di umanità e povera di speranza – c’è il nodo oscuro dell’Olocausto. Ma anche Primo Levi, come ancor più chiaramente un grande come Elie Wiesel, sembra arrivare alle soglie di quel mistero senza più le forze per poterlo sciogliere. Senza neppure, anzi, potersi avvicinare a quella porta.
Dietro l’innominabile ingiustizia della Shoah c’è un mistero più grande, una separazione che affonda nei secoli. “I cabalisti dicevano che anche per Dio stesso non era bene esser solo, ed allora, fin dagli inizi si era preso per compagna la Shekinah, cioè la sua stessa presenza nel creato; così la Shekinah è diventata la moglie di Dio, e quindi la madre di tutti i popoli. Quando il Tempio di Gerusalemme è stato distrutto dai Romani, e noi siamo stati dispersi e fatti schiavi, la Shekinah è andata in collera, si è distaccata da Dio ed è venuta con noi nell’esilio. Ti dirò che questo qualche volta l’ho pensato anch’io, che anche la Shekinah si sia fatta schiava, e sia qui intorno a noi, in questo esilio dentro l’esilio, in questa casa del fango e del dolore” (Lilit).
Primo Levi forse chiama “esilio” quella condizione dell’intera umanità, e non solo del popolo ebraico, che Pascal riconosce come la miseria dell’uomo senza Dio – la miseria che l’ebreo Gesù, il Cristo, è venuto a “ri-comprare” (redimere) affinché ne fossimo, tutti, liberati.
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