“Non ci sono reali opportunità di lavoro qui, quasi non ci sono pesci da pescare. Non riusciamo nemmeno a comprare le cose che vogliamo perché qui non ci sono commerci – osserva Suleiman, un Rohingya a Nget Chaung, area in cui vivono circa 9.000 persone -. Le persone qui sono tristi, frustrate di non poter andare da nessuna parte né fare qualcosa. Teniamo dentro di noi la frustrazione perché non possiamo parlare della nostra situazione, non ci sono spazi per farlo. Non possiamo nemmeno spostarci verso la città più vicina, siamo in gabbia”.
Tra i 550.000 e i 600.000 Rohingya sono rimasti a vivere nello stato del Rakhine. Le loro condizioni di vita, già difficili, sono ulteriormente peggiorate con l’inasprirsi del conflitto tra l’esercito del Myanmar e quello dell’Arakan, un gruppo armato etnico del Rakhine.
Anche in Malesia, Paese verso cui fuggono da oltre 30 anni, ricorda Msf, “i Rohingya si trovano in un limbo. La mancanza di uno status giuridico li porta, insieme agli altri rifugiati e richiedenti asilo, a vivere in una crescente condizione di precarietà. Non potendo lavorare legalmente, finiscono nel mercato nero, sfruttati, a volte costretti alla schiavitù per aver contratto debiti ed esposti a incidenti sul lavoro. Perfino mentre camminano per strada o cercano cure mediche possono essere presi e reclusi in centri di detenzione o finire vittime di estorsione”.