Il vertice G7 di Biarritz va in archivio senza decisioni di rilievo, mostrando però – almeno in apparenza – una ritrovata volontà di dialogo tra i sette Grandi del mondo occidentale. Il club, che di fatto esclude alcuni decisivi protagonisti della scena globale (Cina, Russia, i nuovi giganti di Asia, Africa e America latina), aveva in agenda almeno quattro temi-chiave della politica internazionale: il cambiamento climatico che sta finalmente assumendo lo status di urgenza planetaria; la guerra commerciale inaugurata da Trump e della quale fanno per ora le spese Cina ed Europa; la questione nucleare, con il convitato di pietra iraniano; il Brexit, con lo sganciamento del Regno Unito dalla casa comune europea e una nuova possibile convergenza Washington-Londra.
Due, invece, gli argomenti rimasti sotto tono al G7 in terra francese:
anzitutto l’economia mondiale, la quale necessita di una nuova ampia fase espansiva, per evitare il ritorno di una mega-recessione senza confini (in questo senso la guerra dei dazi targata Usa costituisce un pericolo enorme, mentre le notizie sulla frenata del motore tedesco sono un ulteriore cupo segnale); in secondo luogo il nodo-Africa, che richiederebbe un gigantesco intervento internazionale per favorire crescita economica e sociale e stabilizzazione politica, premesse necessarie per dare futuro ai popoli africani e porre un freno ai flussi migratori intra ex extracontinentali.
Ora che i protagonisti del summit di Biarritz si salutano, stringendosi calorosamente la mano, rimangono (purtroppo) aperti tutti questi dossier riguardanti i cinque continenti e che Donald Tusk ha rielaborato e declinato in prospettiva europea.
Il presidente del Consiglio europeo, intervenendo davanti ai big del mondo, ha auspicato una “prova di unità e solidarietà” dei Grandi, evitando “controversie insensate” perché “il mondo oggi ha bisogno di maggior cooperazione”. Tusk, a partire da una lettura dell’Europa di oggi, ha dunque elencato i principali tornanti che attendono la politica internazionale, i quali comprendono : “la difesa della democrazia liberale, dello stato di diritto e dei diritti umani, in particolare nel contesto del rilancio dei nazionalismi e delle nuove forme di autoritarismo, nonché delle minacce derivanti dallo sviluppo delle tecnologie digitali” (intromissione nelle elezioni, fake news, “usando l’intelligenza artificiale contro i cittadini e le loro libertà”); “la crisi climatica e la protezione dell’ambiente naturale, comprese le foreste amazzoniche e gli oceani”; lo stop alle guerre commerciali; la minaccia della proliferazione nucleare; “la politica della Russia nei confronti dei vicini, in particolare la sua aggressione contro l’Ucraina”.
Altri due capitoli delicatissimi sono posti in primo piano da Tusk. Il primo è proprio l’Africa, verso la quale l’Ue mostra nuove attenzioni, progetti e sostegni, benché ancora insufficienti per prendere di petto la complessa situazione del continente. Il secondo è il Brexit, con il premier inglese Boris Johnson che minaccia il no deal, fingendo di non sapere che il suo futuro di premier è legato a un filo, che alle spalle ha un parlamento e un Paese lacerati, e che le prime vittime di un irresponsabile no deal (uscita dall’Ue senza accordo e senza regole) sarebbero proprio i suoi concittadini.
A questo proposito, Tusk fa le valigie da Biarritz avendo affermato che Boris Johnson è “il terzo conservatore britannico, primo ministro, con il quale parlo di Brexit”.
Dopo la sagace sottolineatura, il presidente del Consiglio europeo ha dichiarato: “L’Ue è sempre stata aperta alla cooperazione; quando David Cameron voleva evitare il Brexit, quando Theresa May voleva evitare un Brexit senza accordi, e saremo pronti ora a tenere seri colloqui con il primo ministro Johnson. L’unico versante sul quale non siamo disposti a collaborare è proprio il no deal. E spero ancora che a Johnson non piaccia passare alla storia come Mr No Deal”.
I punti enucleati da Tusk fra l’altro collimano in buona parte con il documento “Un’Unione più ambiziosa”, che la presidente incaricata della Commissione, Ursula Von der Leyen, ha presentato a inizio luglio e che costituirebbe – se il nuovo esecutivo decollasse – lo schema per la futura politica dell’Unione europea.
E in tutto questo, l’Italia?
Al G7 il Belpaese è stato rappresentato da un presidente del Consiglio dimissionario. Alla data ultima per indicare il proprio commissario europeo (26 agosto), Roma non ha un nome da inviare alla Von der Leyen; sulla posizione dell’Italia nell’Unione economica e monetaria aleggiano una legge di stabilità (manovra finanziaria) ad alto rischio, un debito pubblico sempre in aumento, una stagnazione economica aggravatasi negli ultimi mesi. Sull’Italia pesa inoltre la nomea nazionalista che è andata maturando da un anno a questa parte. Elementi questi, che non dovrebbero sfuggire ai leader dei partiti italiani mentre tentano di sbrogliare la matassa della crisi di governo. Anche perché, si sa, l’Europa e la storia non possono aspettare.
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