In cosa consiste il peccato dell’uomo ricco che Gesù ci presenta, oggi, nel brano evangelico? Nel fatto che sia ricco? Che veste abiti di porpora e lino finissimo? Che si dà continuamente a lauti banchetti?
No! Il suo peccato, quello che, alla sua morte, lo condanna agli inferi, è il non accogliere, il non soccorrere, il non condividere ciò che ha e di cui gode con chi è alla sua porta, povero, affamato, senza nulla.
In cosa consiste il peccato degli aristocratici di Samaria, dei quali il profeta Amos scrive nella prima lettura? Nell’essere «distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani» mangiando «gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla»? Nell’usare unguenti raffinati o nel dilettarsi al suono dell’arpa?
No! Il loro peccato, quello che li porterà «in esilio in testa ai deportati» e li condannerà, è il non essersi preoccupati della rovina del popolo.
Il Signore, questa domenica, non vuole condannare la ricchezza o il godere dei propri beni, ma l’indifferenza: il ricco non fa del male al povero, i ricchi di Samaria non fanno direttamente male al popolo…solo che nessuno di loro fa nulla per chi gli è accanto, in rovina, per chi, come nel caso del povero Lazzaro, è «coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco», accostato solo dai cani..
E questa indifferenza assoluta crea un’enorme distanza tra il ricco e Lazzaro, una distanza che non scompare dopo la morte, anzi… diviene infinita.
Lazzaro, alla sua morte, «fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto…stando agli inferi tra i tormenti».
«…un grande abisso» tra i due, come ci spiega proprio Abramo a cui il ricco si rivolge per avere un po’ di sollievo dalle sue pene: «Coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi».
Un abisso, una separazione che creiamo già noi in questa vita, e che, dopo la morte, non può che continuare ad esistere, un abisso che nulla potrà riempire, neppure la volontà di Dio!
«Tu, uomo di Dio – scrive Paolo a Timoteo -, tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza».
Sono queste le armi che ci permettono di affrontare la «buona battaglia della fede», una battaglia che non separa, non genera differenze, non crea dolore, morte, disuguaglianza ma ci fa vicini, capaci di condividere, accogliere, per fare della nostra vita e della vita di ogni uomo «la bella testimonianza» del Cristo che «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà».