Ironico, geniale, profondo, leggero, delicatamente sovversivo, illuminante, divertente, in costante dialogo con un pubblico che dall’ultima stagione non fa che riempire il Teatro Sala Umberto arrivando al sold-out. Giovanni Scifoni è questo e molto altro, capace di far ridere e piangere contemporaneamente. Partito dai teatri di parrocchia, fino alla televisione per diventare virale sui social con i video sul santo del giorno. Un funambolo che attraversa la linea sottile della coscienza umana, cercando di mantenere l’equilibrio tra le domande importanti che spesso portiamo dentro ma non abbiamo il coraggio di condividere: “Perché, come scrive san Paolo, desidero il bene e faccio il male? ‘Santo piacere’ – dice Scifoni al Sir – nasce da una fortissima esigenza personale di capire che cosa avesse a che vedere Dio con il fatto che tutta questa energia sessuale che ho dentro e che vedo nel mondo determina così tanto le nostre scelte, le nostre pulsioni, i nostri desideri. Ognuno di noi desidera avere una vita sessuale felice e…non ce l’ha! E facciamo disastri! Allora che centra Dio con tutto questo? Questa è la domanda per me cruciale!”.
I personaggi dello spettacolo sono numerosi, ma l’attore sul palco è solo, accompagnato unicamente da una danzatrice, emblema della femminilità e della sua capacità di scatenare nell’uomo una forza che può essere distruttiva o vitale.
In “Santo piacere” c’è tutto Scifoni, è una riflessione autobiografica
in cui le intuizioni più importanti arrivano da personaggi laterali come Rashid, l’amico musulmano e pizzaiolo, o da don Mauro, che nella sua apparente debolezza riesce a dominare i dubbi esistenziali del protagonista accompagnandolo all’essenza della sua libertà: “Ma tu Giovanni cosa vuoi? Cosa desideri?”. Il sacerdote, semplice e senza alcun tratto carismatico, custodisce uno dei segreti più fragili e potenti del cuore umano, e cioè che “la verità è dentro ognuno di noi non c’è possibilità di fraintenderla”.
Lo spettacolo scritto e interpretato da Scifoni, con la regia di Vincenzo Incenzo ha fatto il tutto esaurito in tre importanti sale di Roma e si appresta a replicare il sold-out anche in questa settimana, dove sarà in scena fino al 27 ottobre al Sala Umberto.
A determinare il successo di “Santo piacere” non è solo l’efficacia dei monologhi, come quello della lampadina, metafora della fedeltà matrimoniale, ma è soprattutto la potenza dell’identificazione che il teatro regala:
“Io spettatore – spiega – vado al teatro per sentirmi raccontare, cioè io voglio vedermi riflesso in quello che viene raccontato, e così allora posso ridere, posso piangere, rido di me e non di qualcun altro. Non rido perché viene preso in giro il politico o il mio avversario, rido di me, dei miei difetti, dei miei peccatucci. Come diceva Moliere citando il famoso detto latino ‘Castigat ridendo mores’, cioè correggere le abitudini ridendo. Ma le abitudini di chi? Non di un altro ma le mie, di io che vado a teatro. Infatti Moliere distruggeva pesantemente i vizi della borghesia ma era la borghesia stessa che andava a teatro a ridere. Capita anche che piango di me, mi commuovo di me, di una situazione in cui mi sono potuto trovare. Ma è anche l’attore che si identifica con quello che fa, cioè non è vero che si trasforma e diventa qualcun altro. Diventa quel personaggio ma questo in qualche modo un po’ gli somiglia, questo qualcun altro che io interpreto in qualche modo mi racconta qualcosa di me, sennò non riesco a interpretarlo, sennò sono finto. Invece
sono un attore realistico, verosimile, quando l’altro che interpreto in qualche modo entra in contatto con la mia anima,
e anche in questo caso c’è l’identificazione”.
Scifoni si mette a nudo, letteralmente dalla prima all’ultima scena è uno spogliarsi di vestiti e di paure, e con voli pindarici tra citazioni di santi, filosofi, scrittori e una colonna sonora che spazia da Leonard Cohen a Lucio Dalla conduce lo spettatore ad un’intima domanda: desidero un piacere facile o felice?