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Sinodo per l’Amazzonia: card. Schönborn, “diaconato permanente” possibile risposta alle “sfide pastorali”

M.Michela Nicolais

“Il card. Hummes ha illustrato il progetto del documento finale, di cui è iniziata l’elaborazione, ma il processo di ascolto non è terminato”. A precisarlo è stato Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede, nel briefing che ha inaugurato l’ultima settimana del Sinodo per l’Amazzonia. La bozza illustrata dal card. Claudio Hummes, arcivescovo emerito di Sào Paulo e presidente della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam), raccoglie i frutti degli interventi presentati durante i lavori e passerà ora ai Circoli minori per l’elaborazione dei “modi collettivi”. Tali emendamenti – nelle giornate di mercoledì e giovedì – verranno inseriti nel documento finale dal relatore generale e dai segretari speciali, con l’aiuto degli esperti. Quindi il testo verrà rivisto dalla Commissione per la redazione per poi essere letto in aula venerdì pomeriggio, nel corso della 15ª Congregazione generale. Sabato pomeriggio, infine, la 16ª Congregazione generale vedrà la votazione del documento finale, che verrà consegnato al Papa.

“Il diaconato permanente è molto importante e significativo per la vita della Chiesa”.

Ne è convinto il card. Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e presidente della Conferenza episcopale austriaca, che ha citato il caso della sua diocesi, che conta 180 diaconi permanenti, la maggior parte dei quali sposati. “Il diaconato permanente è una delle proposte per questa zona del mondo, per aiutare la pastorale in questo immenso territorio”, la tesi del cardinale: “Il tema ministeriale è importante per questo Sinodo, fa parte dei nuovi cammini per la Chiesa in Amazzonia. Il ruolo delle donne nelle nostre comunità, insieme a quello dei ministri istituiti e dei ministri ordinati, è certamente un tema di cui si discute al Sinodo: vediamo quali saranno alla fine le proposte che verranno sottoposte al Santo Padre”. Rispondendo ad una domanda sulla questione vocazionale, il porporato ha posto l’accento sul “problema della distribuzione del clero” e della “solidarietà vocazionale”. “L’Europa – ha detto – ha certamente una sovrabbondanza di preti: siamo grati all’aiuto dei presbiteri di altri Paesi, ma nello stesso tempo si pone una questione di giustizia” verso altre zone del mondo. “Dalla sola Colombia – ha fatto notare, ad esempio, l’arcivescovo di Vienna – 1.200 preti prestano il loro servizio negli Stati Uniti, in Canada e in Spagna. Almeno una parte di loro potrebbe essere disposta ad andare in Amazzonia”. Di qui la necessità di “una autocritica da parte della Chiesa universale”.

“Sarebbe un segno molto forte se la Chiesa riuscisse a limitare l’uso dell’oro nei suoi sacramenti e liturgie”.

A lanciare la provocazione è stato padre Dario Bossi, superiore provinciale dei Missionari Comboniani in Brasile, membro della Repam e della Rete Iglesias y Minería, che ha messo in guardia circa il pericolo che i “cercatori d’oro” rappresentano per la regione amazzonica e sui danni provocati dell’“estrattivismo predatorio” delle multinazionali. “L’associazione tra governo e grandi imprese è molto pericolosa”, la denuncia: “Si modificano le leggi e si riducono i controlli ambientali”. Anche la Chiesa, l’appello del missionario, può fare la sua parte per combattere questa deriva: “Esiste una riflessione sull’uso dell’oro, che è quello che più evidentemente ne illustra l’illogicità. Solo il 10% dell’oro viene usato per processi effettivamente utili, il resto viene stoccato e usato per l’oreficeria”.

“Per gli indigeni il pericolo più grande è l’invisibilità: quando sei invisibile, non hai diritti”.

A spiegarlo è stata  Marcivana Rodrigues Paiva, rappresentante del gruppo etnico sateré mawé, in Brasile, segnalando l’“urbanizzazione” come fenomeno sempre crescente per i popoli indigeni. Soltanto a Manaus ci sono 45 popolazioni indigene, 35mila abitanti in tutto, che parlano 16 lingue diverse.

“L’Amazzonia è una metafora della terra, soggetta a vari tipi di violenza”.

Parola di mons. Domenico Pompili, vescovo di Rieti, uno dei membri del Sinodo per l’Amazzonia nominati personalmente dal Papa. Citando il caso del terremoto che nell’agosto del 2016 ha colpito il Centro Italia, provocando quasi 250 vittime, Pompili ha affermato che “il problema del rapporto tra l’uomo e l’ambiente è ancora irrisolto: in una terra ‘ballerina’ come la nostra, serve non solo iniziare la ricostruzione, che 38 mesi dopo è ancora di là da venire, ma occorre una ‘rigenerazione’ fatta su rigorosi criteri ecosostenibili. Se il terremoto del Centro Italia fosse avvenuto in Giappone, sarebbe stato soltanto una pagina di cronaca e non il dramma che hanno vissuto quattro regioni, 174 comuni, decine di migliaia di sfollati”. Questioni come il terremoto o la devastazione dell’Amazzonia, la tesi del vescovo, “chiamano in causa tutti: sono una questione irrisolta all’interno di una questione più grande che anche in Italia, come già accade in America Latina, comincia ad imporsi in quello che una volta veniva definito il Paese dei cento campanili. E tutto questo, per una sorta di esasperata laboriosità economica che tende a privilegiare i grandi centri rispetto alle aree interne”.

“Rubare qualcosa da un luogo e buttarlo è una bravata”. Così Ruffini ha commentato a caldo l’episodio delle statue indigene rubate e gettate nel Tevere. “Le statue indigene rubate rappresentano la vita, la fertilità, la madre terra”, ha proseguito Ruffini: “È un gesto che contraddice l’esperienza di dialogo che dal Sinodo dovrebbe arrivare a tutti. È stato un furto che si commenta anche da solo”.

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