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L’Europa dell’est dopo il Muro di Berlino: punti fermi e interrogativi

Gianni Borsa

In ogni Paese europeo sono state avviate, o appaiono imminenti, iniziative per celebrare il trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino: la data simbolo è il 9 novembre. In effetti la storia racconta che quel giorno ha rappresentato una tappa del più ampio e generale processo di implosione del sistema sovietico e del Patto di Varsavia che teneva legati all’Urss i “Paesi satelliti” dell’Europa centro-orientale. La posta in gioco era la fine dei regimi comunisti che avevano caratterizzato dal secondo dopoguerra e fino a quel momento, la parte orientale del vecchio continente; inoltre tale processo avrebbe posto fine alla “guerra fredda”, cioè a quel prolungato “conflitto sotto traccia” tra il blocco sovietico e l’alleanza atlantica basato sulla deterrenza nucleare.

Al 9 novembre 1989 non si arrivò per caso.

Benché oggi quegli anni appaiano lontani quanto un’era geologica, non si può trascurare il significato delle numerose e decisive tappe di “avvicinamento”: l’avvento di Solidarnosc (il sindacato fondato in Polonia nel settembre 1980 in seguito agli scioperi nei cantieri navali di Danzica, guidato inizialmente da Lech Wałęsa e sostenuto dalla Chiesa) nella Polonia del generale Jaruzelski; la “perestroika” di Gorbaciov, cioè il complesso di riforme avviate dalla dirigenza dell’Unione Sovietica a metà degli anni Ottanta, finalizzate alla riorganizzazione dell’economia e della struttura politica e sociale del Paese. Non si può nemmeno dimenticare l’azione riformista del governo Nemeth in Ungheria. Rilevante fu inoltre la diffusione del pensiero democratico di tanti intellettuali di allora come Vaclav Havel, politico, drammaturgo e poeta ceco, dissidente e perseguitato politico. Oppure il coraggio di studenti e operai che, con azioni dimostratrici in tante città dell’est, indicavano la via di una ribellione, seppur pacifica.
Le celebrazioni della caduta del Muro potrebbero quindi contribuire, in questi giorni, non solo a ricordare quella svolta storica, ma anche a fare il punto della situazionesui mutamenti – politici, sociali, culturali – intervenuti nei Paesi centro-orientali, ma anche a verificare il rapporto tra questi e gli Stati occidentali, e con l’Unione europea.
Di certo oggi si registra, dalla Polonia all’Ungheria, dalla Slovacchia ai Baltici fino alla Bulgaria e ai Balcani, una crescita economica impressionante rispetto alle condizioni in cui si trovavano i sistemi produttivi dell’immediato post- comunismo: l’occupazione è a livelli altissimi, benché le retribuzioni medie siano piuttosto modeste. Gli standard di vita (misurabili, ad esempio, con l’aumento dell’aspettativa di vita o il livello di istruzione oppure con la diffusione di internet) stanno rincorrendo quelli di Germania, Francia o Italia, dove, al tempo stesso, continuano a dirigersi flussi migratori considerevoli in partenza da Romania, Polonia, Bulgaria, Ucraina, Moldavia… Come non ricordare poi l’accelerazione del processo di secolarizzazione in atto in queste società, mentre il potere politico è poco stimato dai cittadini (secondo innumerevoli sondaggi e stando a taluni, non tutti, risultati elettorali). Il nazionalismo è radicato in quasi tutti i Paesi dell’Europa orientale; la corruzione è un problema dilagante (lo confermano le proteste di piazza); la democrazia è più volte offesa (azioni contro la libertà di stampa, leggi che imbrigliano l’attività della magistratura…), tanto da far pensare a democrazie tuttora fragili. Ma soprattutto, si chiudono le porte ai rifugiati provenienti sia dal corridoio mediterraneo che dalla rotta balcanica, dimenticando invece il flusso emigratorio che da questi Paesi si muove verso le mete dell’Europa occidentale.

Quale, dunque, il bilancio di questi trent’anni?

Il 9 novembre 2019 potrebbe, come si diceva, essere colto come opportunità per una riflessione collettiva su ciò che è seguito al superamento della Cortina di ferro, suscitando qualche serio interrogativo. A Varsavia come a Budapest o Sofia si sono fatti veramente i “conti con la storia”, anche per definire responsabilità ed eredità dei regimi (quello stesso processo che ha segnato, con contrasti aperti e complici silenzi il dopoguerra della Germania ex nazista e dell’Italia ex fascista)? Si è compreso – come insegna il crollo del Muro di Berlino – che la libertà non può essere imbrigliata e nessun popolo può essere represso senza che, prima o poi, si ribelli? Le ritrovate libertà e democrazia, assieme allo sviluppo materiale, come vengono interpretate e messe in gioco oggi? E quel Muro che divideva i berlinesi, crollato assieme alle macerie delle ideologie e delle dittature, può oggi venir nuovamente eretto, magari per tener lontani migranti che a loro volta cercano libertà, democrazia, lavoro e benessere?
Il posto delle nazioni dell’est nell’Europa odierna e di domani dipende anche dalle risposte a queste e altre domande. Chiamando d’altronde in causa le nazioni dell’ovest e del nord del continente, spesso afflitte dagli stessi “mali” e a loro volta attese a un serio esame di coscienza con la storia.

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