Gabriella Ceraso – Città del Vaticano www.vaticannews.va
Vi incoraggio a non perdere di vista questo importante obiettivo: aiutare l’assemblea liturgica e il popolo di Dio a percepire e partecipare, con tutti i sensi, fisici e spirituali, al mistero di Dio. La musica sacra e il canto liturgico hanno il compito di donarci il senso della gloria di Dio, della sua bellezza, della sua santità che ci avvolge come una ‘nube luminosa’.
Con queste parole Papa Francesco si rivolgeva, nel marzo del 2017, ai partecipanti alla prima edizione del Convegno internazionale voluto dal Pontificio Consiglio della Cultura sul tema Musica e Chiesa: culto e cultura, in occasione dei 50 anni dalla Musicam Sacram .Era una prima riflessione importante per una proposta positiva di un culto cristiano espressione di lode a Dio pur nella diversità dei modelli culturali. L’anno successivo il Dicastero pose al centro dei lavori i compositori, col tema Chiesa e compositori. Parole e suoni. Obiettivo era indagare sul posto occupato dai compositori nella vita musicale della Chiesa e sul loro contributo pastorale e culturale, così come sulle esigenze e le aspettative delle comunità cristiane.
Dialogo è contaminazione
Dall’ “oggetto musica” dunque, al “soggetto” compositore e quest’anno al secondo soggetto: “l’interprete” con cui continuare a tessere un “dialogo necessario”. Da ieri pomeriggio al 9 novembre, sarà infatti l’interpretazione al centro del confronto tra musicisti, docenti universitari, teologi e biblisti insieme per affrontare le sfide che si pongono quando l’opera musicale dallo spartito prende vita nelle mani dell’esecutore, passa dunque in uno strumento o nelle voci di un coro che appartengono ad una cultura e ad un’epoca e di questa risentono. E allora interculturalità – con riferimento alle religioni monoteiste nell’area mediterranea ma anche a quanto accade in America latina – l’uso della voce anche come musica nella liturgia, su cui prenderanno la parola il compositore Salvatore Sciarrino e il benedettino Jordi A. Piqué, e poi l’improvvisazione, e l’interpretazione odierna della musica sacra antica – affidata al musicologo Dinko Fabris. Previsti inoltre gli interventi del compositore polacco Paweł Łukaszewski e dell’organista e direttore musicale all’abbazia di Westminster, James O’Donnell.
Ritessere il filo con gli interpreti
Ad aprire i lavori il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura il cardinale Gianfranco Ravasi con un intervento su Ermeneutica e interpretazione. “L’esistenza di un’opera musicale – dice il porporato ai nostri microfoni facendo sue le parole del filosofo Luigi Pareyson – non è quella inerte dello spartito ma è quella viva dell’esecuzione, viva e molteplice, ma che non pregiudica in nulla l’unità di quanto è all’interno del testo scritto dal compositore”. Dunque l’esecuzione è una ri-creazione come la stessa improvvisazione. Per questo è necessario, afferma il cardinale Ravasi, “ritessere il filo del dialogo con gli interpreti” e garantire quel delicato equilibrio tra la naturale attualizzazione e inculturazione del repertorio liturgico e la tutela della sua sacralità.
R. – E’ necessario ritessere il filo, perché si devono evitare alcune degenerazioni e soprattutto si deve cercare di riportare ancora il dialogo con la musica contemporanea ad un livello degno, a un livello di qualità, come è avvenuto in passato. Pensiamo soltanto a cosa è stato il trapasso avvenuto nel ’500 dal canto gregoriano, un canto monodico che è tipico proprio delle cattedrali gotiche, al canto invece polifonico che era più adatto al Rinascimento, dove più era necessario anche un coinvolgimento di più voci.
Si parte dal suo intervento, “Ermeneutica e interpretazione”. Quale sfondo vuole creare all’inizio della conversazione?
R. – Il vero discorso mio preliminare è l’ermeneutica teologica, la corretta interpretazione teologica, parallela all’interpretazione musicale. E’ indispensabile intrecciare sempre la fedeltà tecnica cioè la conoscenza del testo di partenza, ma ricordare anche che l’esecuzione, il testo poi diventa esecuzione, viene eseguito: è una realtà viva, è una realtà sonora. Ecco, questi due poli devono essere conservati, poli che, alla fine, sono l’applicazione del Salmo: “Cantate inni a Dio…cantate a Dio con arte!” (Salmo 47, 7-8). ‘Arte’ vuol dire la conoscenza dei testi, la competenza tecnica, la qualità della composizione, il dialogo con la mutevolezza degli stili, ma vuol dire anche cantare inni a Dio e quindi c’è nell’arte anche l’interpretazione, c’è il coro che sale, c’è la sensibilità, la partitura che diventa canto, voce.
Quindi la questione dell’interpretazione e degli interpreti, ruota tra la fedeltà, la tecnica e tutto ciò che è legato al testo, all’opera in sé e la sua vita nel momento in cui quest’opera va nelle mani di un esecutore o raggiunge l’orecchio del pubblico, perché anche il pubblico è un interprete, condizionato dalla realtà in cui vive?
R. – E’ fondamentale questa osservazione del triplice nesso tra autore, esecutore e fruitore. Ma rimane comunque che non ci può essere un’esplicitazione solo meccanica e rigida del testo ma bisogna far sbocciare la partitura, lo spartito, svelandone le potenzialità. Ecco perché allora è necessaria la solida attrezzatura tecnica, una preparazione del coro, una certa competenza anche dell’assemblea e, dall’altra parte però una sensibilità, una consonanza, un dono ulteriore direi, di comprensione. Io quindi devo formare bene il coro, devo formare anche un po’ l’assemblea perché sia decorosa nel culto, e devo anche far sì che questo non sia una scuola di canto, ma alla fine sia un’invocazione. E allora ecco, l’interpretazione diventa la qualità liturgica, la qualità spirituale di un canto o di una musica che viene eseguito durante la liturgia.
C’è anche l’improvvisazione come argomento di discussione. L’improvvisazione è interpretazione?
R. – L’improvvisazione non è soltanto una questione ben nota nel discorso musicale, ma è anche qualcosa che concerne direi l’attualizzazione. Però bisogna essere cauti perché deve avere delle caratteristiche che sono proprie della liturgia che non è solo, almeno, quella di uno spettacolo – la liturgia è anche spettacolo, è anche dramma, è anche partecipazione – ma non è evidentemente una esecuzione libera.
I timori – se possiamo parlare di timori – sull’uso da parte di un interprete di un repertorio, quello sacro, ci sono? E quali sono?
R. – Bisogna sempre distinguere tra musica spirituale in senso lato, che può essere assolutamente libera pur avendo una base spirituale; musica sacra – che può essere per esempio… non so, si fa un oratorio che viene composto su un testo biblico ma per una finalità catechetica – e poi c’è la musica liturgica. La musica liturgica deve essere prima di tutto fedele ad alcune norme che sono proprie della liturgia per esempio la liturgia ha dei testi che sono necessari e che costituiscono elementi basilari. Su di essi deve fiorire un testo che sia musicale, che sia consono all’atmosfera ma anche che tenga conto del mutare dei tempi. Da una parte la sacralità e dall’altra l’attualizzazione. Per questo credo che in passato col desiderio di fare un aggancio con la cultura contemporanea si sia dimenticato la tipologia propria della liturgia. C’è la necessità di attualizzarla ma anche di conservare la sua sacralità, la sua struttura e le sue caratteristiche specifiche.