Sabato 16 e domenica 17 novembre a Roma l’Usmi – Unione superiore maggiori d’Italia – organizza presso la propria sede (via Zanardelli, 32) un’iniziativa rivolta a tutte le consacrate che operano nella Pastorale carceraria: “Donne consacrate e carcere: chiamate ad annunciare il Vangelo oggi… dietro e oltre le sbarre”. Fra gli altri sono previsti gli interventi di Silvia Landra (che tratterà il tema “Ascoltare, annunciare, condividere la Buona Novella in carcere”) e di Agnese Moro (che si soffermerà sulla “La mediazione riconciliativa quale strumento per una nuova Giustizia penale”). Domenica 17 la messa sarà celebrata da monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia e presidente della Caritas italiana.
Suor Annuccia Maestroni è la referente nazionale delle religiose che operano nelle carceri italiane e insieme a lei abbiamo fatto il punto della situazione sul loro servizio, nonché sulle difficoltà (e sulle carenze) del sistema penitenziario italiano.
Suor Annuccia, quante sono attualmente le suore che prestano servizio nelle carceri italiane e in che strutture sono operative? Come si esplica il vostro servizio? Quali sono i punti cardine del vostro mandato all’interno delle case circondariali?
Attualmente siamo 223 consacrate e operiamo in 86 carceri su 209 strutture penitenziarie presenti in Italia. Siamo operative sia nelle sezioni maschili che in quelle femminili; alcune di noi entrano negli istituti penitenziari per minori (Ipm) e negli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam).
Per quanto ci è possibile e con la nostra umanità fragile ma appassionata, anche noi cerchiamo di “liberare la pena” dentro azioni concrete.
All’interno delle carceri ognuna di noi svolge un compito abbastanza definito: alcune si occupano dell’accompagnamento umano – spirituale; altre della catechesi, dei colloqui individuali, della preparazione ai Sacramenti, della Liturgia della Parola. Siamo presenti nelle celebrazioni eucaristiche, operiamo in collaborazione con l’équipe dell’area pedagogica ai progetti di recupero e reintegrazione della persona detenuta. Alcune sono presenza attiva nei laboratori occupazionali e nella distribuzione di indumenti e materiale di prima necessità.
Ci sono poi le azioni che svolgiamo sul territorio, fuori le mura delle carceri:
ascolto e sostegno ai familiari delle persone detenute, accompagnamento nelle Comunità di accoglienza residenziale per persone detenute, avvicinamento e ascolto alle vittime e familiari, collaborazione con le Caritas diocesane, sensibilizzazione della tematica sul territorio e Parrocchie.
Per noi importante è lavorare in rete collaborando e facilitando momenti di comunione con tutte le persone che lavorano nelle carceri, specialmente con i cappellani e i volontari.
Detenuta e donna: un binomio che sottintende una doppia difficoltà? Le carceri femminili italiane sono pronte per accogliere le detenute?
Il carcere è un luogo dove, all’occhio, pare subito privo di qualsiasi “tocco” femminile, si direbbe anche privo di una possibile accoglienza umana. Le donne detenute, forse per un indole tipicamente femminile, fin dai primi giorni della carcerazione si pongono in ricerca di altre persone per sfogarsi, quasi come volessero “abortire” il proprio stato d’animo; ne sentono un bisogno estremo, una necessità pari all’aria che respirano. La relazione che la donna detenuta (qualsiasi cultura e religione essa appartenga) cerca di avere con l’altra persona, sia essa compagna di cella o volontaria, ha in sé inizialmente una parte di dubbio, sospetto e diffidenza. Questo atteggiamento che, come primo approccio, può sembrare negativo, spesso è l’inizio di una ricerca affannosa di ciò che la potrebbe risollevare e ricollocare dentro un positivo che da tempo non sperimenta, ma che sa come realtà esistente.
Dentro le parole dette con angoscia e confusione si rendono quasi sempre presenti i figli per chi è madre e i genitori per chi si “ritrova”, a volte dopo tanto tempo, a risentirsi figlia.
Il dolore umano, direi viscerale e in questo caso tipicamente femminile, viene trasformato in una immediata e ansiosa richiesta, affinché qualcuno di noi, “esterni” ma non estranei al carcere, possa mettersi in contatto con “chi sta loro a cuore”, sperando che l’altra persona ci sia ancora “con lo stesso cuore” di ieri… Paure di essere abbandonate, che si fanno vere incisioni nella carne quando sentono di aver abbandonato chi è parte della loro vita!
Detenute e madri con i bambini al seguito. Che percorso per entrambi?
Sempre più frequente tra le mura del carcere la presenza delle donne – madri. Numerose quelle che portano in Istituto figli minori e ancora di più quelle che hanno figli in qualche angolo del mondo. Qui, forse dovuto anche alla nostra sensibilità femminile, si percepisce fortemente e ininterrottamente un misto tra speranza e disperazione, spesso urlate, a volte anche senza voce.
Con l’immagine del quadro “l’urlo” di Edvard Munch, dove le mani stringono il volto che urla in un vuoto disperato, si può intravedere la disperazione di ogni madre che da lontano percepisce il pianto del proprio figlio e sa di non poter raggiungerlo per consolarlo e coccolarlo;
questa disperazione a lungo tempo rischia di distruggere pian piano la loro natura materna.
È raro che queste donne madri, in tali situazioni, rifiutino una vicinanza. Il sentirsi ascoltate e non lasciate sole con la propria disperazione è un tentativo di aggrapparsi nuovamente alla vita proprio mentre urlano il loro: “non voglio più vivere”.
Quasi per assurdo, dentro questo lento, faticoso e doloroso percorso del “riprendersi cura di sé”, emergono in tante donne ristrette atteggiamenti concreti di attenzione, cura, rispetto che si concretizzano nella solidarietà verso gli altri, chiunque essi siano (detenute, agenti o volontari). Anche per noi consacrate, che ci facciamo compagne di cammino in queste storie ferite, non è raro né insolito essere avvicinate dalle agenti della Polizia penitenziaria sorprese e incredule di fronte agli atteggiamenti di alcune donne divenuti, nel tempo, “capaci di ri-dare vita”.
Recentemente anche papa Francesco, nell’udienza ai Cappellani delle carceri italiane, alla Polizia e al personale dell’Amministrazione penitenziaria, si è soffermato su problemi quali sovraffollamento, mancanza di percorsi di lavoro e di ri-costruzione post carcere. Quali sono, secondo voi operatori, i principali problemi dei penitenziari italiani?
Monsignor Crociata scrive negli “Orientamenti pastorali della Pastorale carceraria”: “Compito della Pastorale penitenziaria è di richiamare, secondo le vie possibili e nei modi più consoni, la necessità da parte dei pubblici poteri di far sì che il carcere diventi un luogo realmente educativo”.
Questo monito, rivolto a tutti gli operatori delle carceri, quindi anche a ciascuna di noi; è un chiaro invito a rivolgersi alle Istituzioni politiche e pubbliche perché istituiscano leggi e interventi che portino a migliorare il sistema carcerario, per dare dignità alle persone ristrette e investano maggiormente sui progetti di reinserimento e di recupero.
Difficile poi definire “i principali problemi” nelle carceri: ogni intervento, o non intervento, che avviene nelle carceri, quando è finalizzato alla privazione della libertà e dignità, non può che provocare alla persona detenuta un senso di annientamento e per la coscienza di tutti noi una continua sconfitta.
Impegnarsi a creare nella società, nelle Istituzioni politiche e di conseguenza nel Sistema Giudiziario una diversa cultura di Giustizia, porterebbe certamente ad utilizzare le carceri come strumento rieducativo e non strettamente punitivo.
Alcuni segni esterni: in Italia ci sono case di accoglienza per persone detenute, tra queste anche mamme con figli minori. Queste comunità sono sostenute e guidate da Istituti religiosi femminili e maschili e da associazioni laiche impegnate su questo fronte. Sono piccoli segni per dire che è possibile “scontare” la pena in un percorso diverso dalla carcerazione. È una sfida dove vede accompagnatore e accompagnato riscoprire insieme “una possibile rinascita” per entrambi.