Le elezioni spagnole del 10 novembre, le quarte in quattro anni, segnano un sostanziale nulla di fatto. “Non cambia molto, e semmai si cambia in peggio”: afferma Steven Forti, docente di Storia contemporanea presso l’Università autonoma di Barcellona e ricercatore all’Università Nova di Lisbona. Forti è un attento interprete della società e della politica iberica: all’indomani del voto spagnolo, analizza per il Sir i risultati che confermano il Partito socialista – Psoe – del premier Pedro Sanchez come prima forza del Paese (28,0% dei voti, 120 seggi, ne perde 3), pur arretrando rispetto alle elezioni dello scorso aprile; il Partito popolare – Pp – risale al 20,8% (88 seggi, ne aveva 66). Terza forza nazionale si impone l’ultradestra di Vox: 15,1% di preferenze e 52 seggi (era a 24). La sinistra di Unidos Podemos cala di poco, crolla la forza centrista dei Ciudadanos. Notevoli i consensi dei partiti minori, con un parlamento frammentato.
Ogni elezione mostra dati da leggere con attenzione. Al momento nessun “blocco” (sinistra e destra) può contare sui 176 seggi per governare. È uno stallo che si protrae da troppo tempo. Ma questa volta sottolineerei due novità. La prima è l’ascesa dell’estrema destra con il successo di Vox che porta via voti soprattutto a Ciudadanos. Seconda novità mi pare l’emergere di una stanchezza dell’elettorato; l’affluenza ai seggi è calata del 4% e anche il voto a Vox potrebbe riflettere questo giudizio dei cittadini rispetto a una politica incapace di dare un governo e risposte al Paese.
Dunque il Psoe cala, il Pp sembra rianimato, a destra si registra un travaso di voti verso Vox ai danni di Ciudadanos. Nel complesso il parlamento sarà più frammentato anche per la presenza di numerosi partiti minori…
Sì, la situazione è complicatissima. C’è il rischio di non trovare la quadra per la formazione di una maggioranza parlamentare e di un governo stabile. Di certo Sanchez, che aveva voluto queste votazioni nella speranza di rafforzare la posizione del Psoe, ne esce indebolito: il suo partito ha perso 700mila voti.Mi ricorda un po’ il tentativo del premier britannico Theresa May di ricorrere alle urne per ottenere maggior forza politica, salvo trovare una brutta sorpresa.Per quanto riguarda Vox – specchio delle posizioni di Orban in Ungheria e di Salvini e Meloni in Italia – direi che siamo di fronte a una forza nazional populista che propone ricette semplicistiche a problemi complessi. Vox si è avvantaggiato del clamore suscitato dalle proteste in Catalogna e magari anche della vicenda del trasferimento della salma di Francisco Franco…
Già, ma quali possibilità intravvede nel futuro della politica spagnola?
Ci sono diverse opzioni. La prima è che Sanchez riconosca il fallimento della sua strategia recente, che comprende uno spostamento centrista, ricucendo – in vista di una maggioranza progressista – i rapporti con Podemos, dando vita a un governo che possa contare sull’astensione benevola dei partiti minori e degli indipendentisti catalani. Vedo meno percorribile una seconda strada: un governo di grande coalizione, mentre un governo socialista con l’appoggio esterno dei popolari sarebbe già più percorribile, per quanto difficile. Terza strada, finora non contemplata, sarebbe la scelta, da parte del Re, di una personalità esterna ai partiti, presa dalla società civile, ampiamente stimata, per dare vita a un governo istituzionale. Un’ultima possibilità, che non mi sento di escludere, è un nuovo ritorno alle urne. In quel caso Vox aumenterebbe certamente i propri consensi.
A mio avviso emerge una incapacità della classe politica nel suo insieme di comprendere che i tempi sono cambiati, che l’opinione pubblica e l’elettorato sono assai più frammentati che in passato e che non esistono “maggioranze assolute” per governare. I partiti e i leader devono imparare a costruire delle coalizioni politiche e programmatiche – finora non contemplate in Spagna – come avviene in gran parte d’Europa. E poi c’è una questione di fondo.
Quale?
È la crisi catalana, che anche questa volta è stata al centro dell’attenzione e che ha fatto presa, in un modo o nell’altro, sull’intero elettorato. Si tratta di un tema essenziale nella vita del Paese che prima o poi dovrà essere affrontato seriamente. Di certo non in sede di tribunali! L’instabilità politica spagnola è un riflesso anche – non solo – della questione catalana e da Madrid finora non sono arrivate proposte alternative alla richiesta di indipendenza, che peraltro è sostenuta da poco meno della metà dei catalani.Occorre sedersi attorno al tavolo e indicare una via d’uscita percorribile, che preveda ad esempio una riforma costituzionale, oppure la concessione di maggior autonomia politica, o una revisione del sistema fiscale…Molta responsabilità dell’acuirsi della vicenda si deve all’ex premier Mariano Rajoy; situazione ereditata da Sanchez una volta giunto alla Moncloa e tuttora rimasta senza risposte. Oggi come oggi anche i leader indipendentisti qui a Barcellona non riescono a incanalare le proteste, che spesso sono sfuggite di mano e degenerate in violenze. Le generazioni più giovani in Catalogna hanno conosciuto le proteste contro Madrid come unica forma di partecipazione politica, anche dietro la promessa di una indipendenza a portata di mano. E ora sono delusi…
Un’ultima domanda: i dati macroeconomici spagnoli appaiono da diverso tempo positivi. Non hanno influito sul voto popolare?
L’economia è passata in secondo piano in un dibattito segnato – come dicevamo – da altri fattori. Ed è vero che il Prodotto interno lordo cresce a buon ritmo rispetto al resto d’Europa e che la disoccupazione è andata calando dopo i disastri prodotti dalla crisi. Però è altrettanto vero che le persone senza lavoro sono tante, specialmente tra i giovani, i redditi medi faticano a riprendersi e si torna a temere una nuova brusca frenata del Pil. Tutto questo non ha generato ricadute immediate sulle intenzione di voto.