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Insulti a disabili. Don Albanesi: “Frutto di ignoranza e frustrazione”

Gigliola Alfaro

Un ristorante, a Livorno, per protestare contro i sigilli posti alla pedana esterna del locale, affigge un cartello in cui viene usata la sindrome di down come offesa contro chi ha scritto l’esposto. Su una pagina chiusa di Facebook insulti al diciannovenne Valerio Catoia, con sindrome di down, divenuto noto per aver salvato due anni fa, a Sabaudia (in provincia di Latina) una bambina di dieci anni che stava affogando in mare. Per il suo atto eroico il presidente Sergio Mattarella lo ha nominato Alfiere della Repubblica, ma l’ammirazione che ha suscitato in tutto il Paese per il suo coraggio non è bastata per proteggerlo dagli attacchi di hater sui social.

“Queste persone che insultano sono ignoranti e arroganti: si credono lupi e invece sono coyote. Non se ne può più di tanta superficialità e arroganza che non solo offendono le persone con la sindrome di down, ma che dovrebbero far vergognare chi lancia queste offese.

Insultare così è indice di un basso livello di civiltà”.

Ne è convinto don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco. “Ognuno ha la sua dignità, la sua storia -prosegue il sacerdote -. Tutti da anziani potremmo diventare bisognosi di aiuto: queste persone offendono l’umanità perché non siamo sempre belli, forti e capaci”. Per il presidente di Capodarco, “dietro tanta aggressività si nasconde anche la frustrazione”: “C’è il decimo comandamento – non desiderare le cose degli altri – eppure tutti vogliono essere belli, ricchi, sani, potenti, noti, ma spesso quello che si desidera non si traduce in realtà e lì nasce la frustrazione.Non ci accetta quello che si è. Si vive in una cultura, infatti, che spinge verso la superiorità: se non si riesce ad acquisirla, ingiustamente si riversa la rabbia su quelli che sono, erroneamente, ritenuti inferiori”.

“Un gruppo chiuso su Facebook ha fatto uno screenshot della pagina Sostenitori.info in cui si applaudiva Valerio per l’atto eroico e l’hanno pubblicato sulla loro pagina chiusa dove sono iniziati i commenti con insulti, del tipo ‘sembra un cane’, ‘si doveva sparare’. L’ho saputo, il 12 agosto, da un medico che mi ha informato e mi ha fatto conoscere un giornalista che si era infiltrato nel gruppo chiuso che diceva di fare ‘satira nera’”. A raccontarlo al Sir è Giovanni Catoia, papà di Valerio. Dopo aver visto, grazie agli screenshot inviati dal giornalista gli insulti, Giovanni ha contattato su Messenger gli autori delle offese “per chiedere conto di quanto stavano facendo”: “Hanno iniziato a sbeffeggiare anche me. Non contenti, sulla loro pagina chiusa si vantavano di essere diventati famosi e di quello che avevano scritto”. Catoia ha sporto querela alla polizia postale. Ora la pagina è sparita. Solo adesso l’episodio è stato conosciuto. “La gente sembra incattivirsi sempre di più – commenta Giovanni -. In questo caso non so se pensare alla cattiveria delle persone o all’ignoranza o alla noia. Quanto è avvenuto non mi fa stare tranquillo”.Di qui l’auspicio che “queste persone siano individuate e capiscano il male che hanno compiuto”. Valerio, all’oscuro di quanto avvenuto sui social, qualche settimana fa ha ricevuto il premio nazionale Fair Play del Coni e precedentemente quello internazionale a Baku. “Per noi – ricorda il papà –

la nascita di Valerio è stata un dono.

Probabilmente se non fosse nato la mia famiglia si sarebbe sfasciata perché eravamo in un momento di crisi, poi superato: ora abbiamo anche una seconda figlia di 14 anni. Valerio ci ha tenuti uniti: è stato proprio un dono, all’inizio, quando è nato, e tuttora ci dà tantissimo, più di quello che noi riusciamo a dargli.

Valerio mi capisce al volo, ha un sesto senso”.

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Con la vicenda degli insulti “mi sembra di rivivere i primi mesi dopo la nascita di Valerio. Allora io e mia moglie eravamo molto giovani e non conoscevamo bene la sindrome di down. Perciò,siamo andati da parecchi medici e uno di loro disse: ‘Valerio è come un fiore che non sboccerà mai’. Se mi avessero dato una pugnalata al cuore mi avrebbero fatto meno male. Adesso sto vivendo un po’ le stesse sensazioni, anche se meno dolorose perché ormai sono vaccinato: in questi 19 anni ne ho sentite tante, ma è pesante”.

“Contro gli stereotipi mi arrabbio, certamente, ma

quello che mi preoccupa è il clima generale culturale che si respira nel nostro Paese: si semplifica e si esclude

e questo comporta gravi problemi all’accettazione dell’altro che vediamo diverso. Il tutto si innesta in una situazione europea ma soprattutto italiana di difficoltà finanziaria che diventa una giustificazione per l’inasprimento degli animi”. A parlare è Stefano Menghini, presidente dell’Aipd (Associazione italiana persone down) di Roma, papà di una giovane donna con la sindrome di down: Benedetta, di 31 anni. I coniugi Menghini hanno anche un figlio maggiore di 34 anni. “Quello che è avvenuto a Livorno non mi preoccupa più di tanto: solo una persona ignorante può comportarsi così – sostiene Menghini -.Mi spaventa di più l’atteggiamento generale che tende a sottovalutare gli episodi di intolleranza, da quanto è successo contro Liliana Segre alle offese ai ragazzi con sindrome di down. Nel cartello è stata usata la parola mongoloide, che, di per sé, non è una parolaccia, ma ha assunto un significato dispregiativo per una serie di luoghi comuni”.Ma occorre andare oltre i pregiudizi: “Quando è nata Benedetta abbiamo avuto paura anche io e mia moglie. Ora quando guardo mia figlia non penso più alla sindrome di down, vedo solo Benedetta. Le persone disabili danno moltissimo: non è un modo di dire, è proprio vero. Hanno una sensibilità e un’attenzione all’altro che non si riscontrano in nessun altro membro della famiglia. Nella mia esperienza, Benedetta mi guarda e mi capisce”. La ragazza lavora dal 2013 in un asilo nido del comune, “Villa Chigi”, dopo aver superato un concorso rivolto a disabili nel 2012.

“Mia figlia è una ragazza felice.

Tiene moltissimo al lavoro, non vuole mancare un giorno – dice il padre -. Questo asilo, grazie anche alla coordinatrice che ha favorito in ogni modo l’inclusione, è un modello positivo di integrazione”. Benedetta pratica anche sport, in particolare judo: “Anche in palestra hanno agevolato l’integrazione. Inoltre, è autonoma negli spostamenti abituali e nella cura personale”.“La nostra è un’esperienza positiva – aggiunge Stefano – anche se non manca la preoccupazione per il dopo di noi: il loro futuro, dopo la nostra morte, è veramente quello che fa la differenza tra un figlio normodotato e non”.

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