(da New York) La tragedia dei Rohingya in Myanmar, i bambini soldato della Sierra Leone, le rivolte in Cile e in vari paesi sudamericani, le minacce del populismo, lo sfruttamento e la distruzione delle foreste arrivano con la loro carica di tragedia e di speranza all’assemblea di Religions for peace che per tre giorni a New York si è interrogata sul contributo che le comunità religiose posso dare alla pace, creando piattaforme e luoghi di dialogo dove si possono incontrare i nemici, i capi di stato, le vittime e gli assalitori, gli sfruttati e gli sfruttatori. I leader religiosi presenti in sala rappresentano 90 Paesi e sono la voce di almeno un miliardo di credenti che si trovano allo stesso tavolo di lavoro con gli inviati Onu per il clima e per la prevenzione dei conflitti, ma anche con diverse fondazioni che vogliono supportare chi costruisce pace e tutela l’ambiente grazie alla fede .
La dottoressa Karram descrive Religions for peace come “la naturale controparte delle Nazioni Unite, il mondo dei governi, mentrenoi siamo il mondo delle tradizioni della fede e siamo e possiamo essere sempre di più partner solidi dell’Onusoprattutto nello sviluppo e nella costruzione della pace e io mi assicurerò che l’Onu onori e sia onorato dallo straordinario lavoro delle comunità di ispirazione religiosa”. Nel 2020, in contemporanea con il 75° anniversario della fondazione delle Nazioni Unite, Religions for peace celebrerà il suo 50° compleanno. Nel 1970, a Tokio, si svolse la prima assemblea ufficiale dei rappresentanti delle fedi e delle religioni e quell’appuntamento, di fatto, ha segnato la nascita della coalizione, che dopo l’assemblea della scorsa estate a Lindau e questo appuntamento programmatico a New York vuole catalizzare le forze di molte più organizzazioni di ispirazione religiosa con chiari indirizzi umanitari, in un lavoro di accompagnamento dell’impegno dei credenti ordinari, dei leader religiosi e delle politiche internazionali.
“Sappiamo che
oltre il 30% dei servizi sanitari di base nel mondo è fornito dalle organizzazioni religiose
negli Stati Uniti i dati parlano del 70% – precisa Azza Karram – e perché non lavorare con i governi per vincere le sfide del degrado ambientale, della povertà, delle violazioni della dignità umana, delle ingiustizie? Nel futuro ci attendono tante crisi umanitarie, legate specialmente all’ambiente e noi abbiamo la possibilità di lavorare insieme, non cristiani per i cristiani, musulmani per i musulmani, o indù per indù: è insieme che possiamo fare la differenza”.
Una differenza efficace e visibile che il reverendo Kyoichi Sugino, vice segretario generale di Religions for peace illustra con due interventi di successo: il conflitto in Sierra Leone e la crisi dei Rohingya in Myanmar.Nel primo caso il consiglio interreligioso nato nel 1997 ha ispirato le mamme cristiane e musulmane a trattare con i ribelli per la liberazione di ben 57 ostaggi. “Il successo della mediazione religiosa ha convinto il governo ad invitare i rappresentanti di questo consiglio come mediatori del processo di pace e sono stati loro i veri ponti che hanno portato all’accordo e che ora hanno ispirato altri paesi nel creare consigli interreligiosi che possono giocare un ruolo fondamentale. Il loro lavoro con le agenzie umanitarie è stato fondamentale nella lotta all’Ebola e all’Aids”, spiega Sugino.
Diverso è il caso del Myanmar dove il cardinale Bo ha riunito i leader religiosi del Paese e anche quelli del Bangladesh, dove la minoranza Rohingya ha trovato scampo, per rilasciare una dichiarazione congiunta per l’impegno umanitario verso i rifugiati. “Il cardinale sa, ad esempio, che a livello della base e dei credenti semplici, nessuno ama parlare dei Rohingya, ma lui ha trovato le parole giuste, assieme agli altri leader religiosi per aprire ponti di dialogo anche con il governo a tutela sia delle minoranze che dell’intera popolazione. Sappiamo che, talvolta, operare a livello di policy o di leader è più semplice che convincere il credente, ma vogliamo sviluppare tecniche di dialogo che implementino la partecipazione dal basso. Lo stiamo sperimentando anche in Amazzonia dove leader religiosi e leader indigeni stanno lavorando insieme come guardiani della foresta”.
Anche la libertà di pensiero, coscienza e credo, come le minacce ai sistemi democratici rientrano pienamente nell’agenda del giorno e interrogano e preoccupano tutti i rappresentanti delle fedi.Azza Karram mette in guardia dal rischio di trasformarsi in entità politica e di focalizzarsi solo sulle policy e sui governi perché “nostro compito è mantenere alto lo spirito e mettersi in ascolto dello spirito in questo cammino comune: è questa la nostra responsabilità per le nostre istituzioni, per la salvaguardia del pianeta, per la pace e per i giovani”.