SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Col Natale che ci apprestiamo a vivere ricordare la nascita di un Dio “senzatetto”, una situazione di disagio che si perpetua nel corso dei secoli, come direbbe anche il don Camillo di Giovannino Guareschi: «Fratelli, ricordatevi della notte di Natale e di Maria e di Giuseppe alla ricerca di un tetto. Da allora 2000 anni sono passati, ma quanti figli di lavoratori vengono al mondo in abituri peggiori della stalla di Betlemme?». Questo ovviamente avviene anche nella nostra città. Per questo motivo abbiamo parlato di emergenza abitativa con Daniele Primavera, responsabile dell’Unione Inquilini per la Città di San Benedetto.
Quante sono oggi le persone che alloggiano nelle case popolari?
Dati esatti sul patrimonio esistente non li ho a portata di mano, sono di competenza dell’Ente Regionale per l’Abitazione Pubblica (ERAP). Cerco di restituirti una panoramica esaustiva. Il patrimonio immobiliare attualmente disponibile in territorio sambenedettese è ciò che resta di quello storico, sopravvissuto alle progressive alienazioni. Molti appartamenti costruiti soprattutto negli anni ’50-’70 sono stati infatti venduti agli inquilini e sono entrati nel mercato privato. Nel frattempo da circa 20 anni il numero di nuove costruzioni si è praticamente azzerato, con il risultato che le assegnazioni si sono fermate e vengono fatte col contagocce, nell’ordine delle poche unità l’anno. Per questa ragione, naturalmente, la grande maggioranza degli occupanti è “storica”, dato che la turnazione è molto bassa e le case nuove pressoché assenti.
Coloro che sono assegnatari si una casa popolare sono inseriti in progetti sociali o sono abbandonati a loro stessi?
I canali d’accesso sono indipendenti, quindi non c’è alcun legame automatico tra progetti sociali e assegnazione o permanenza in un alloggio popolare: basta rientrare nei criteri reddituali/sociali e classificarsi nelle prime posizioni. Poi dove ci sono necessità specifiche intervengono gli enti preposti. Molti ad esempio sono i disabili, che usufruiscono dei servizi di assistenza comunali, così come i servizi sociali seguono molte situazioni di particolare disagio. La maggior parte degli inquilini, comunque, non ha ulteriori necessità particolari e conduce una vita perfettamente normale, pur avendo un reddito contenuto e mantenendo così il diritto a usufruire dell’abitazione pubblica. Sono semplicemente famiglie a basso reddito.
Quanti sono invece coloro che sono in attesa di ricevere una casa?
Stime puntuali sul bisogno reale non ce ne possono essere. Circa 200, infatti, sono i richiedenti dell’ultimo bando, per il quale tra l’altro siamo ancora in attesa della pubblicazione almeno della graduatoria provvisoria. Molti di più sono quelli che ne avrebbero bisogno, dal momento che i criteri hanno progressivamente ristretto la possibilità di partecipare. Secondo le nostre stime, se il bando fosse davvero aperto a tutte le situazioni di reale necessità riteniamo ci sarebbe un incremento di almeno il 30%.
Lei pensa che le case popolari debbano sorgere in un unico quartiere oppure che debbano essere spalmate sull’intera città?
Come sindacalista, più che occuparmi di criteri urbanistici mi interessano i numeri, e quindi concentro le battaglie sulla necessità di reperire nuovi alloggi per chi ha bisogno. Se mi chiedete un parere politico/urbanistico, tuttavia, è del tutto evidente che concentrare un gran numero di alloggi – nell’ordine delle centinaia – in un’unica zona è una pratica che si è rivelata, nei decenni, sbagliata e pericolosa. In ogni caso questo rischio oggi non c’è, dal momento che tutti gli interventi (anche solo ipotizzati) sono di poche unità. Recentemente c’è stato chi – e mi riferisco al Sindaco di San Benedetto – ha parlato di “pericolo ghetto” a proposito di 12 alloggi che sarebbero dovuti sorgere alla Sentina, in una zona dove alloggi popolari non ce ne sono affatto. Ecco: questo è evidentemente uno spauracchio, 12 o 15 alloggi non saranno mai un “ghetto”, come non lo sono 20 o 30 alloggi. Numeri come questi non cambiano la fisionomia di un quartiere. Intanto però l’argomento è servito a cancellare quell’intervento, col risultato che 12 o 15 famiglie resteranno in difficoltà, altro che “ghetto”: si preferisce spendere in piccole manutenzioni che dare risposte sociali.
Quali sono i passi concreti che l’unione inquilini sta facendo per migliorare la situazione presente?
Come Unione Inquilini siamo impegnati su due fronti. Per ciò che riguarda il mercato privato, insieme alle altre organizzazioni di categoria, stiamo lavorando per la definizione dei nuovi accordi sul Canone Agevolato. Gli accordi sono già stati sottoscritti per la città di Ascoli e presto lo saranno anche per San Benedetto e Grottammare. In questo modo i proprietari che decideranno di affittare a canone calmierato otterranno un significativo sconto fiscale. Per quanto riguarda il pubblico, invece, la nostra azione consiste prevalentemente nello stimolo e nell’interlocuzione verso le amministrazioni, per sensibilizzarle sul disagio abitativo. Spesso questa pur pressante esigenza finisce in secondo piano per la mancanza di un’attività di lobbying. Noi proviamo a colmare questa mancanza. Infine, offriamo consulenza legale e sostegno a tutti gli inquilini vittima di contenzioso, o che desiderano accedere alle prestazioni che gli enti mettono a disposizione per contrastare le situazioni di disagio, anche costruendo relazioni con l’associazionismo e il terzo settore.
A suo avviso quali misure di welfare dovrebbero essere prese a livello nazionale per risolvere la questione abitativa?
La mia personale opinione è che si debba tornare al modello di finanziamento in vigore fino agli anni ’90. Allora esisteva una tassa di scopo, denominata GESCAL (acronimo di GEStione CAse per i Lavoratori), di lievissima entità, che produceva un cospicuo e costante gettito dedicato esclusivamente alla costruzione di nuovi alloggi. Di quale sia la migliore formula si può discutere: ovviamente la fonte di finanziamento può essere diversa, ma il punto centrale è che debba essere “sistemica”, annuale, affidabile. Non altri “piani straordinari”, insomma, ma un ripensamento complessivo della presenza del pubblico nel mercato dell’abitazione. Basta pensare che oggi lo Stato rinuncia a oltre 1 miliardo di euro l’anno in sconti fiscali rivolti anche a chi affitta a prezzo di mercato. Recuperare anche solo quel miliardo significherebbe dare linfa vitale a un settore asfittico da decenni; in una città come San Benedetto, vuol dire avere oltre un milione l’anno disponibile per recuperi e nuovi alloggi, e cioè triplicare il tasso di assegnazione attuale. Le pare poco? A noi no.