“Il tunnel” è il titolo del suo ultimo romanzo (2018): la storia di un ingegnere che costruiva strade e tunnel, Zvi Luria, che si trova a fare i conti con il proprio cervello colpito dalla demenza senile. Una vicenda, da un lato, intima e familiare che pone in primo piano il tema della perdita della memoria e, dall’altro, collettiva perché si innerva nella storia politica e sociale di due popoli, quello israeliano e palestinese, tanto vicini quanto distanti, entrati nel tunnel di un conflitto dal quale sembra impossibile uscire.
Abraham B. Yehoshua è uno dei più grandi scrittori israeliani, autore, tra gli altri, de “La sposa liberata”, “L’amante”, “Un divorzio tardivo”, “Fuoco amico” e “Il signor Mani”. Mercoledì 11 dicembre lo scrittore ha dialogato – collegato da Tel Aviv – con il card. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la cultura, su alcune figure chiave del testo biblico sul tema della sofferenza e della speranza, in un incontro svoltosi presso l’Università Gregoriana, a Roma, promosso dal Centro “Cardinal Bea” per gli studi giudaici, in collaborazione con il Dipartimento di Cultura Ebraica della Comunità Ebraica di Roma. A margine di questa conferenza il Sir ha intervistato lo scrittore.
“Nei miei libri – esordisce Yehoshua – ho cercato di parlare della vita in generale, intesa come rapporti nella famiglia, rapporti matrimoniali, rapporti tra gli ebrei che vivono qui e gli ebrei che vivono nella diaspora, rapporti tra noi e gli arabi. Il conflitto si articola attraverso i rapporti tra ebrei e arabi, soprattutto israeliani, che sono anche cittadini del nostro Paese, e fanno quindi parte della nostra vita.
Nei suoi romanzi emerge tutta la complessità del contesto sociale israeliano, segnato da identità sempre più rigide oltre che dal conflitto…
Naturalmente la questione del conflitto tra noi e i palestinesi, il conflitto tra noi e l’identità ebraica e il rapporto di quest’ultima con Israele e quello con la diaspora, sono temi molto complessi e delicati. Da una parte la questione dei palestinesi è sempre stata problematica nel contesto della rivoluzione sionista e dell’ingresso dei sionisti in questo Paese perché i palestinesi erano un popolo che viveva qui e che ha detto: “Voi non avete il diritto di stare qui”. È uno dei conflitti più antichi del nostro tempo quello tra israeliani e palestinesi, non con gli arabi. Ed ebbe inizio con una questione che risale a più di 140 anni fa. Su questo tema hanno scritto un’enorme quantità di persone, è un conflitto che ha coinvolto l’intera comunità internazionale, eppure è un problema specifico perché non c’è mai stato un popolo proveniente dall’esterno che dicesse alle popolazioni locali ‘la vostra patria è la nostra patria’. Dopo la Guerra dei Sei giorni gli ebrei hanno occupato anche la restante parte del territorio palestinese e vi hanno insediato i coloni. I palestinesi sono motivati dal loro desiderio di tornare nella loro terra lasciata nel ’48. Oggi vivono a 10 km dalle loro case da cui erano fuggiti e dove vorrebbero far ritorno. Non vogliono stabilirsi in Palestina, ma tornare a casa, la loro casa natia.
Crede che sia ancora possibile promuovere i rapporti tra le persone che vivono in Israele, tra i diversi gruppi, oppure la paura dell’altro e la chiusura hanno soffocato ogni possibilità di incontro?
Oggi la società israeliana è fortemente divisa. E questa frattura, come si può vedere anche nel resto del mondo, deriva dal predominio e dalla minaccia della politica di destra.
La destra sta diventando sempre più aggressiva in molti Paesi. Soprattutto nel nostro.
Nel nostro Paese la divisione tra gli israeliani, i gruppi ebraici, sta diventando sempre più aspra.
Una delle conseguenze è che Israele tornerà al voto il prossimo 2 marzo…
Dovremo andare alle urne per la terza volta in un anno. Non riusciamo neanche a formare un governo. Ritengo Netanyahu responsabile di questa situazione causata dalla sua politica aggressiva in Israele e dal modo in cui ha messo un gruppo contro l’altro. Ma va anche detta un’altra cosa, molto importante…
Quale?
Che gli arabi israeliani sono sempre più integrati nel tessuto del Paese, nello Stato. Quando parlo degli arabi israeliani, gli israeliani palestinesi, parlo di due milioni di persone, una minoranza di due milioni di cittadini. Siedono in Parlamento e hanno votato alle ultime elezioni, e spero vivamente che alle prossime voteranno in numero maggiore.
La Soluzione dei due Stati è ancora sostenibile?
Questa soluzione non è più praticabile a causa dei 400mila coloni israeliani che vivono in Cisgiordania. Per il futuro prospetto la soluzione di un unico Stato. È complicato arrivarci ma credo sia l’unica possibilità. Occorrerà cambiare molte cose. Ciò che vedo è che i palestinesi non vogliono un piccolo Stato separato ma l’uguaglianza. Per 50 anni sono stato un fautore della soluzione dei due Stati, ma ora ho rinunciato perché è irrealizzabile. La cosa più importante oggi è
abolire l’apartheid in Cisgiordania.
Come valuta le decisioni di Trump di trasferire l’ambasciata Usa a Gerusalemme, di considerare ‘non illegali’ gli insediamenti israeliani nei territori occupati e il taglio dei finanziamenti all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente?
Penso che Trump sia un pessimo presidente. Sta compiendo molte azioni cattive e spero vivamente che venga estromesso dalla Presidenza. Ha fatto di tutto per conquistare il favore degli ebrei conservatori in America. Il trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme ha avuto come unico risultato quello di compromettere una possibile soluzione dei due Stati. È un personaggio estremamente negativo per l’America, per il mondo e per la pace in Medio Oriente.
Poco fa denunciava la crescente aggressività di movimenti di destra non solo in Israele, ma anche in altri Paesi. Crescono anche negazionismo e antisemitismo. Qui entra in gioco il tema della memoria. Ricordo che lei una volta disse che in Israele la gente è troppo attaccata alla memoria e non bada a ciò che accade oggi. Forse ‘essere troppo attaccati alla memoria’ non porta i frutti sperati?
Troppa memoria può essere pericolosa. Troppa enfasi sulla memoria della Shoah rende gli antisemiti più aggressivi. Penso che dobbiamo guardare al futuro e al presente, e non insistere sempre e solo sul passato. Dobbiamo ridurre, non dimenticare, ma ridurre il livello e l’intensità della memoria. Ovunque, e non solo per ciò che riguarda gli ebrei. In Polonia, in Ungheria insistere sulla memoria di molti eventi ha portato al ritorno delle dispute.
Abbiamo così tanti problemi nel presente e soprattutto nel futuro come il clima e migrazioni che non possiamo sempre riesumare la memoria e usarla per attaccarci e litigare tra di noi.
La memoria impedisce l’oblio della Shoah e il ripetersi di fatti analoghi…
Io non credo che la gente stia dimenticando la Shoah. Il problema oggi è come costruire e sviluppare le relazioni con ebrei, musulmani e altre realtà. Non possiamo, per esempio, continuare ad accusare gli italiani per quello che ci hanno fatto durante la Seconda Guerra Mondiale. Non possiamo sempre rivangare le problematiche del passato.
Dobbiamo costruire relazioni per il presente e per il futuro.
A minare la costruzione di nuovi rapporti e relazioni, come da lei auspicato, c’è anche il fenomeno del fondamentalismo religioso, non solo islamico, ma anche ebraico e cristiano. In questo caso a essere minacciato è il diritto di cittadinanza, specie delle minoranze…
Ancora una volta la questione è il fondamentalismo che ha origine nella memoria, nei miti e così via. Lo Stato islamico e i diversi gruppi fondamentalisti hanno gettato il mondo arabo nel caos. Ritengo che gli eventi più preoccupanti nel mondo arabo siano ormai alle nostre spalle. Ora si tratta di ricostruire e rinsaldare i legami nazionali in Iraq e in Siria.
La legge approvata dalla Knesset che definisce ufficialmente Israele “Stato della nazione ebraica” sembra rimarcare la divisione all’interno della società israeliana e ledere i diritti delle minoranze in essa presenti. È così?
È una legge stupida e non necessaria. Israele è lo Stato del popolo israeliano.
In Libano e in Iraq la popolazione, senza distinzioni etniche e religiose, è scesa in piazza per chiedere una nuova fase politica, maggiori diritti, lavoro, servizi dignitosi e la fine della corruzione. Siamo davanti a delle nuove rivoluzioni nel mondo arabo?
È molto importante che le persone che vivono in paesi totalitari protestino e dicano ‘basta’. Invece di fare guerre e comprare armi è necessario migliorare la vita della popolazione. In Libano c’è Hezbollah. Che cosa vuole Hezbollah da Israele? Non abbiamo neanche un centimetro di territorio libanese. Perché invece di migliorare la vita della gente accumulano armi e missili? Hezbollah, con l’interferenza dell’Iran, sta arrecando molti danni al Libano. Ha un ruolo importante anche in Siria da quando Assad ha stabilito il suo regime dopo la rivoluzione.
La questione iraniana è uno dei temi caldi che riguardano la sicurezza di Israele…
L’Iran sta diventando il peggior nemico di Israele senza averne motivo: non abbiamo mai condiviso una zona di confine, né avuto questioni di natura territoriale. Perché l’Iran non ha cercato di progredire, di svilupparsi, invece di costruire missili per produrre armi nucleari e interferire con altri paesi? In questo senso concordo con le misure restrittive nei confronti dell’Iran al fine di contenerne il fanatismo.
Cionondimeno, ribadisco che la questione è passare dall’aggressività verso l’esterno al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Il fatto che la gente stia manifestando in Paesi totalitari come l’Iran, l’Iraq e anche il Libano, è una cosa molto positiva.
Che peso ha la cultura nel processo di ricostruzione del tessuto umano e sociale delle società segnate da divisioni, frammentazioni e guerre?
Un grande peso. Ma non deve diventare un mezzo di intrattenimento che domina la scena culturale fino a prevalere sulla cultura stessa. Le persone sono sempre più dipendenti da Internet, dalla televisione, dal loro telefono cellulare.
Stiamo portando avanti un importante progetto di traduzione della letteratura palestinese in ebraico e credo – non posso parlare per l’Europa – che il fatto che gli arabi in Israele stiano scrivendo, traducendo e diventando sempre più parte attiva della nostra società sia il percorso migliore per il raggiungimento della pace e il consolidamento dei nostri rapporti.
Di recente ha partecipato ad una conferenza con il card. Ravasi su alcune figure chiave del testo biblico. Quanto è strategico il dialogo interreligioso in un contesto come quello israeliano e palestinese?
Il dialogo interreligioso è naturalmente molto importante. Nella conferenza ho segnalato il fatto che forse in Israele ci stiamo muovendo verso un futuro – ancora molto lontano – che vedrà la separazione tra appartenenza nazionale e religione. Questo accadrà se ci sarà uno Stato con persone di religioni diverse ma sempre appartenenti allo stesso popolo. Mi riferisco al rapporto tra religione e nazionalità. Nel Vangelo di Matteo, Gesù dice ai suoi seguaci di portare il suo annuncio alla gente, al popolo. Questo è il motivo per cui ci sono 1,5 miliardi di cristiani e solo 12 milioni di ebrei. Dobbiamo misurarci con la nostra religione al di fuori dell’appartenenza alla nazione. Questo è un aspetto drammatico e rivoluzionario al tempo stesso.
I cristiani sono una minoranza in Terra Santa. La loro voce ha ancora un peso?
Credo che i cristiani palestinesi in Israele debbano essere più attivi nella ricerca di una soluzione per la pace.
Soprattutto devono far sentire la loro voce nei Luoghi Santi di Gerusalemme. Devono dire a Israele e ai musulmani: ‘Gerusalemme non è soltanto vostra ma anche nostra. Siamo partner nella soluzione per Gerusalemme’.
Gerusalemme non può essere ebraica o musulmana – penso soprattutto alla Città Vecchia – occorre essere più determinati e più attivi nella ricerca di una soluzione. I cattolici europei dicano che Gerusalemme è anche la loro Terra Santa, non soltanto degli ebrei o dei musulmani. Mi addolora il fatto che i cristiani lascino la Cisgiordania e Israele. È una cosa molto triste perché i cristiani da sempre hanno avuto un ruolo positivo nei rapporti tra ebrei e arabi in Israele. Essi sono un ponte che unisce ebrei e arabi.
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