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Direttore Pompei: “Un Natale difficile da dimenticare”

Pietro Pompei

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – In un mondo così pieno di violenza e di ingiustizia in cui le guerre, le persecuzioni e le prepotenze seminano giornalmente morte ovunque e il mare Mediterraneo è tornato ad essere il cimitero di tante speranze, ripropongo il racconto di un avvenimento luttuoso accaduto nel Natale del 1944 al ritorno dallo sfollamento dopo il passaggio del fronte di guerra.
Desidero far memoria dei tanti bambini, di ieri e di oggi, vittime di ordigni esplosivi disseminati dalla “stoltezza”; degli uomini..
Il 23 dicembre sono 49 anni dell’affondamento del Rodi, facciamo memoria dei naufraghi per il lavoro e dei migranti.

Il Presepe era dentro la tradizione  religiosa delle nostre famiglie e spesso ad allestirlo erano le stesse che si ritrovavano insieme a mescolare “Ave Marie e giaculatorie”,con gli stornelli ,in torno alle “fochere” nel ricordo della “Venuta”. Era lo stesso spirito di collaborazione che trovavi intorno ai fornelli a preparare “j frettejette” che suscitavano meraviglie quando ci trovavi qualche chicco di uva passa:semplici gioie di un tempo che arricchivi con la “fava ngreccia” e un bicchiere di vino.

Nella nostra vecchia casa, l’angolo per il Presepe era sempre lo stesso, nella stanza che chiamavamo pomposamente la sala, ma che in effetti era il rimessaggio delle reti, avendo una finestra a pian terreno. Alcune casse che normalmente servivano per il pesce,reggevano la struttura del paesaggio e di un cielo blu, fatto con carta da zucchero. Pezzi di giornale impastati con acqua e gesso avevano la pretesa di fare da montagne sullo sfondo,mostrando le cime innevate da una spolverata di farina. Gli unici personaggi decifrabili erano quelli della Capanna di Betlemme,con un Bambinello grassottello, unico esempio di prosperità contrastava con la magrezza della Madonna e San Giuseppe, ma anche dell’asinello e del bue. I Pastori fatti con il fango trafugato dalla fornace Cerboni,si riconoscevano per le tante pecorelle che riuscivamo a mettere  loro intorno .Una lampadina,tolta dal centro della stanza e appesa ad un prolungamento innestato ad una presa volante,illuminava l’angolo,riempiendo la stanza di ombre in movimento. Non ricordo di aver visto nella mia vita Presepe più bello di quello.

Era il tempo in cui si poteva parlare veramente di attesa, perché dopo la Novena dell’Immacolata e la festa della Madonna “de j cuppette”, noi ragazzi avevamo come unico pensiero l’allestimento del Presepe. Di tutto il materiale necessario potevamo abbondare solo con il “muschio”,non certo quello in cassette pronte al mercato ad avvilire una tradizione, ma quello che sapevamo scoprire nei luoghi boreali delle nostre colline o in prossimità dei fossati. La più cercata era “l’erba vellutina” che non era il solito muschio,ma quello che potevi trovare ai piedi o lungo il fusto delle vecchie querce, talvolta in luoghi scoscesi o tra fitti rovi e che dovevi staccare con particolare abilità per impedire che ti si frantumasse: tappeti di un verde intenso, morbidi come una carezza di velluto e che con cura adagiavi vicino alla grotta e sui quali fantasticavi viottoli di minuti sassolini e deserti di sabbia marina. Si tornava a casa all’imbrunire, lividi in volto, con i “moccoli” appesi al naso, con le mani “curate” e le unghie con grumi di sangue. Ma che gioia se il pezzo di “vellutina”  era davvero grande! Ci portavi dentro anche le lumachine che al caldo delle mura uscivano dal letargo, inargentando le pareti con la loro bava. Nella nostra esplorazione si andava dal fosso Ragnola a quello di Sgariglia, arrampicandoci tra i rovi che non disdegnavano di pungere le nostre magre dita.

E fu in una di queste ricerche che rinvenimmo nel lontano Natale del 1944 una di quelle bombe inesplose, di cui avevamo pieni gli occhi e le orecchie delle raccomandazioni dei nostri genitori e maestri. C’erano manifesti ovunque e disegnate nelle più strane forme. Non servirono, purtroppo,ad evitare tragedie.

Al primo spavento subentrò la curiosità e cercammo di stuzzicarla a distanza con un bastone per vedere se veramente fosse così pericolosa come dicevano i grandi. Tra di noi Peppino (nome inventato)  era il più spavaldo e avventuroso ed era solito, nonostante le raccomandazioni, recuperare polvere da sparo da proiettili inesplosi, divertendosi poi a bruciarla in un andirivieni di piroette. Disse che quell’ordigno poteva contenere tanta polvere da poterci giocare fino a Capodanno.
Le tenebre che stavano scendendo, consigliarono di nascondere quella bomba per tornarci il giorno dopo. Giurammo con le dita incrociate che non avremmo fatto parola con nessuno, perché la “preda” doveva essere solo nostra.
Avevo appena finito di pranzare e mi avviavo al luogo d’incontro quando uno scoppio tremendo mi gelò e il presentimento della catastrofe mise le ali ai piedi. Peppino non aveva avuto la pazienza di aspettare. Non ricordo quante volte sono caduto in quella corsa affannosa. Mi sono arrampicato su dove il mio amico era riverso in una pozza di sangue, mentre intorno gli sterpi e le foglie secche fumigavano. L’urlo mi si fermò in gola e due robuste braccia mi sollevarono portandomi lontano da quel luogo. Restai inebetito per molti giorni, guardando quel presepe rimasto incompiuto. Non so perché, ma tolsi il Bambinello dalla mangiatoia, forse pensavo di adagiarvi Peppino. E così feci per molti anni, finché non compresi che quella culla era servita proprio per dare un senso alle disgrazie del mondo.

 

 

 

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