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Mons. Pizzaballa: “Assumiamo lo stile di Betlemme”

Daniele Rocchi

Dalla chiesa di Santa Caterina, a Betlemme, attigua alla Grotta della Natività, a lanciare lo “stile di Betlemme” è l’amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, mons. Pierbattista Pizzaballa. E lo fa durante la messa di Mezzanotte, alla presenza del Presidente dello Stato di Palestina, Mahmoud Abbas, di Musa Bek Al Daud, rappresentante del Re di Giordania, Abdullah II, di numerosi diplomatici e di tanti fedeli da ogni parte del mondo. Partendo dal brano del Vangelo che racconta la nascita, mons. Pizzaballa, ha ricordato che “Gesù viene in modo normale, senza clamore, senza pubblicità, senza onori”.

Due viaggi. Sullo sfondo “due viaggi”: quello di “Maria e Giuseppe, e quello di chi, come loro, va a farsi censire nella città dove ha avuto origine il loro casato, in obbedienza al decreto di Cesare Augusto” e quello “dei pastori, che partono in seguito ad un annuncio mai sentito prima. I primi partono per sottomettersi ai capricci del potente di turno, che vuole misurare la propria forza e le proprie ricchezze. Partono, arrivano, fanno ciò che è comandato. Ma poi tutto torna come prima. I secondi si mettono in cammino perché proprio loro, che non contavano nulla, che erano disprezzati ed emarginati, sono i primi destinatari di un dono che è per tutti”. “Il popolo del Vangelo si divide in due” ha spiegato mons. Pizzaballa, “chi si mette in cammino con Cristo e chi rimane sulla propria via; chi accetta, come i pastori, di lasciarsi rivestire di luce, senza meriti, e chi, come Erode e i grandi del tempo, resta chiuso nei suoi palazzi e nelle sue vuote certezze”.

Il Natale va cercato e non lo si incontra se restiamo chiusi e fermi nelle nostre sicurezze”.

Da qui la domanda perentoria: “siamo con i pastori in cammino, alla ricerca dell’Emmanuele, del Dio-con-noi, nella vita nostra e in quella del mondo, oppure anche noi ci siamo chiusi nei nostri palazzi?”.

Una domanda che interpella tutti. “Cosa significa per me, per noi qui, oggi, mettersi come i pastori in cammino e non rinchiuderci nei nostri palazzi, cercare il mistero dell’Emmanuele e non avere paura della novità di Gesù? Cosa significa assumere lo stile di Betlemme?” Per l’amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme

assumere lo “stile di Betlemme” significa “sentire nel proprio cuore e nella propria carne, il destino di ogni uomo, a cominciare dal povero, da chi è rifiutato e abbandonato”.

Significa, poi, “piegarsi sulle ferite causate dall’ingiustizia, dall’odio e dal rancore. Significa lavorare in silenzio per portare la luce di Dio ovunque ci sia ombra di tenebra”. Ma, prima ancora, significa “lasciare che la luce di Betlemme illumini noi stessi. Non potremmo infatti portare la luce, se prima non l’abbiamo ricevuta. E perché quella luce ci illumini, dobbiamo lasciare che il bambino di Betlemme vinca le nostre paure e ci conquisti il cuore. I pastori del Vangelo erano liberi, e accolsero immediatamente il messaggio degli angeli. I poveri del Vangelo hanno questa libertà, che forse a noi manca. In questo senso, qui in Terra Santa abbiamo molto cammino da fare perché questo stile diventi veramente nostro”. L’impressione è che

“siamo guidati più dalle nostre paure, che dalla luce della gloria di Dio”.

“Che la paura di sbagliare, che il giudizio di questo mondo determini le nostre scelte più che il desiderio di incontrare ogni uomo, amarlo e rivestirlo di luce”. E questo accade, ha rimarcato mons. Pizzaballa, “quando ci stanchiamo di vedere e di riconoscere come ingiusto quanto accade attorno a noi, quando cioè ci rassegniamo ad accettare come normali le separazioni e divisioni della nostra popolazione causate dalla politica, o la fatica nella vita di ogni giorno per trovare e per recarsi al lavoro, per spostarsi liberamente. Quando facciamo nostro il rifiuto ad accettare nella nostra realtà l’esistenza dell’altro diverso da noi, sia esso ebreo, musulmano o cristiano. Succede quando ci stanchiamo di parlare di pace e di costruirla, ma la consideriamo una irrealizzabile utopia. Succede, insomma, quando restiamo chiusi nei nostri palazzi lontani dalla vita della gente, dentro le nostre case e nelle nostre certezze, preoccupati solo di noi stessi, e ci rifiutiamo di ascoltare, accogliere e fare nostra la voce degli umili, dei diversi da noi, di quanti attendono una parola di speranza. E penso anche alle divisioni in tante nostre famiglie, alla violenza e alla prepotenza che sembra essere l’unico linguaggio parlato da tutti”.

“Stile di Betlemme” è possibile. Ma per mons. Pizzaballa “sarebbe ingiusto limitarsi a stigmatizzare la nostra fatica nell’assumere lo stile di Betlemme, e non riconoscere invece quanti lo vivono nel silenzio, ma con determinazione”.  Il riferimento è a chi si spende “per servire i disabili che nessuno vuole, alle scuole dove i nostri giovani cristiani e musulmani crescono insieme, alle tante iniziative di solidarietà che continuamente sorgono all’interno delle nostre comunità in tutto il territorio della nostra diocesi”.

Lo “stile di Betlemme” si ritrova “in questa nostra terra lacerata e divisa dalla politica, dalle religioni e da tanto odio, anche quando incontriamo persone, associazioni, istituzioni che vogliono, con determinazione e nonostante tutto, semplicemente incontrarsi, conoscersi, costruire qualcosa insieme, superando le incomprensioni di quanti non condividono il loro desiderio di incontro e di pace.

Sono quelli, insomma, che, come i pastori di Betlemme, si mettono in cammino sfidando la paura, il sospetto e l’incredulità per incontrare, amandolo, l’Emmanuele, ovunque e chiunque esso sia. Sono loro oggi a ricordarci che lo “stile di Betlemme” è ancora possibile. Celebrare il Natale vuol dire allora celebrare chi ha ancora desiderio di amare l’uomo, e si mette in gioco per esso”.

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