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La pensione a punti di Macron spacca la Francia. Chi bara?

Da Avvenire, di Daniele Zappalà

La partita fra governo e sindacati francesi sulla riforma delle pensioni è già a un punto d’incandescenza, dopo la clamorosa scelta di far proseguire gli scioperi nei trasporti anche durante le festività natalizie. Inevitabilmente, attorno a faraona, salmone o foie gras, i commensali d’oltralpe biasimeranno i disagi, prendendo forse partito per uno dei contendenti.

Ma in realtà, chi sta barando? L’esecutivo guidato dal presidente ‘modernizzatore’ Emmanuel Macron? Oppure, i sindacati decisi a tornare sulla ribalta, dopo i mesi in cui si erano fatti soffiare la piazza dai gilet gialli? Interrogativi rimbalzati in tante case prima di servire la bûche de Noël, il tradizionale dessert al cioccolato che mette d’accordo grandi e piccini. Un tronchetto di Natale che quest’anno offrirà ristoro a corpi affaticati e menti arrovellate da rompicapi contabili.

Se la riforma di Macron rispecchiasse lo stereotipo di una Francia cartesiana, il baro entrato in gioco sarebbe presto smascherato. Invece, come mostrano i sondaggi, il cuore dei francesi esita. Il governo accusa l’arroccamento ‘egoista’ dei sindacati attorno ai privilegi degli statali e di altre categorie minoritarie detentrici di ‘regimi speciali’ (come quello molto vantaggioso del personale della Ratp, i trasporti metropolitani parigini), a scapito dell’interesse generale.

Da parte loro, le sigle denunciano l’’ipocrisia’ di un esecutivo che cela l’intento di spennare i futuri pensionati dietro stendardi egualitaristici. Basta sfogliare il corposo rapporto del Cor (Consiglio d’orientamento per le pensioni) che ha fatto da base al progetto di riforma, per capire che la materia non è esattamente cartesiana. Anche perché entrano in ballo previsioni demografiche pure a lungo termine, che non sono una scienza esatta.

L’argomentario del governo poggia su nozioni demografiche, come il progressivo invecchiamento della popolazione e il conseguente rapporto vieppiù sbilanciato fra attivi e pensionati. Per l’esecutivo, se si vuole conservare un sistema a ripartizione (ogni anno, i contributi dei lavoratori finanziano le pensioni versate), si deve imperativamente riformarlo. Nel 1990, la Francia contava 4 persone fra i 20 e i 64 anni per ogni over 65.

Ma nel 2018, questo rapporto era già sceso da 4 a 2,9. Una parte più esigua di attivi dovrà finanziare un numero crescente di pensionati, attraverso un sistema che l’anno scorso mostrava già un deficit di 2,9 miliardi. Il mazziere Macron ha così deciso di rimescolare le carte semplificando le regole del gioco, ufficialmente in chiave egualitaria. Al posto delle 42 casse previdenziali attuali nei diversi settori professionali, la riforma intende introdurre un unico sistema universale basato su una ‘pensione a punti’.

Per tutti, l’ammontare della pensione sarà calcolato a partire dai contributi versati nell’intera carriera. Non più, dunque, prendendo come riferimento del calcolo le 25 migliori annate retributive, come avviene oggi spesso nel settore privato. O gli ultimi 6 stipendi, com’è frequente fra gli statali. Un sistema che finora ha garantito in Francia pensioni mediamente più alte che nel resto d’Europa, con una bassa incidenza della povertà fra le tempie canute.

Secondo il governo, i vantaggi della riforma sono molteplici: ad esempio, risolvere il problema delle ‘carriere spezzate’ (cambiando mestiere, cambia la cassa previdenziale), ma anche quello dei precari con contratti brevi persino di una sola giornata, finora ignorati o penalizzati in chiave pensionistica. Inoltre, a chi ha completato una carriera piena, l’esecutivo promette una pensione minima di circa 1000 euro (85% del salario minimo legale).

Altra promessa saliente del governo: per gli infermieri ed altri mestieri logoranti, sarà previsto uno ‘sconto’ di 2 anni. Ma dietro l’apparente semplicità della svolta, emergono zone d’ombra. Ad esempio, le regole per garantire nel tempo che il valore pensionistico di ogni punto non venga intaccato. O ancora, il metodo di rivalutazione periodica delle pensioni per preservare il potere d’acquisto dei pensionati. Da parte loro, i sindacati denunciano in coro due aspetti della riforma.

Innanzitutto, certe categorie, come insegnanti e ferrovieri, saranno penalizzate dal calcolo ‘a punti’, con future pensioni fortemente minorate. Inoltre, esisterà una doppia soglia legale d’età per regolamentare la fine delle carriere: un’età minima di 62 anni per acquisire il diritto alla pensione; ma anche un’età ‘di equilibrio’, di 64 anni a partire dal 2027, prima della quale la pensione percepita sarà decurtata da un meccanismo di bonusmalus. Quest’ultimo aspetto è avversato pure dalla Cfdt, il sindacato riformista divenuto la sigla più rappresentativa. Le due grandi confederazioni d’ispirazione marxista, Cgt e Fo, chiedono invece il ritiro dell’intera riforma. Fra gli altri punti criticati, anche i deboli contributi previdenziali chiesti ai maxiredditi: appena il 2,81% d’aliquota per la parte del reddito che eccede i 120mila euro annui. «Una truffa», secondo il noto economista Thomas Piketty.

Rispetto a molti altri Paesi europei, Italia compresa, il tasso di sindacalizzazione in Francia è più basso. Ma alcune categorie, come gli statali, sono molto più sindacalizzate delle altre. Questo scenario è un fattore cruciale nel conflitto in corso, poiché le categorie teoricamente ‘perdenti’ della riforma sono spesso le più rappresentate dai sindacati. Una situazione che consente al governo di additare più facilmente l’egoismo delle sigle, che baderebbero solo a difendere certi privilegi corporativi. Al contempo, alcune ipotesi di base del ragionamento governativo sono criticate da noti docenti universitari, come il demografo Hervé Le Bras, per il quale l’evoluzione della popolazione «cambierà a medio termine, facilitando l’equilibrio del sistema», senza contare che «l’aspettativa di vita può cessare di progredire», come si è già visto negli Stati Uniti. Conclusione di Le Bras: l’allarmismo governativo sul futuro ‘collasso’ è in parte esagerato. In chiave comparativa, altri studiosi ricordano invece che le pensioni rappresentano in Francia circa il 14% del Pil: più che in Germania (10%), ma meno che in Italia (16%).

Ma allora, chi bara? In realtà, la tentazione di barare pare condivisa. Il governo, attraverso certi dettagli salienti non precisati, come le regole per convertire i punti acquisiti in assegno pensionistico, intende probabilmente accrescere i margini di controllo e manovra del potere centrale sul sistema previdenziale, a scapito delle parti sociali, con un occhio al debito pubblico francese, appena volato oltre la soglia simbolica del 100% del Pil. Da parte loro, i sindacati glissano ad esempio sui vantaggi innegabili che la riforma garantirebbe a certe categorie oggi tanto deboli da apparire discriminate, come gli agricoltori e i precari, o le donne che, volenti o nolenti, hanno un’occupazione part-time.

Al di là della fitta selva di tecnicismi, la riforma è dunque molto politica, come le altre già promosse dall’ambizioso Macron, convinto che l’economia francese spiegherà le vele al vento solo se le imprese investiranno di più, senza lasciarsi troppo imbrigliare dai sistemi redistributivi. Non a caso, la svolta è sostenuta pure dal Medef, equivalente francese della Confindustria. Per il presidente, che aveva incluso il progetto fra i pilastri del programma elettorale, portare a casa una riforma di tale respiro, giudicata finora ‘impossibile’ da tanti, rappresenterebbe pure un trofeo politico eccezionale, anche in vista di un eventuale secondo mandato. Ma lo scontro resta aperto.

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