Non deve essere stato un momento facile nella vita di Gesù l’inizio della sua attività pubblica, dopo i giorni della sua gioventù trascorsi nella piccola Nazareth. Giovanni Battista, che lo aveva battezzato al Giordano, è rinchiuso nelle prigioni di Erode. Ma sapere che Giovanni è imprigionato diventa un segno da leggere nel suo cammino per dare compimento alla volontà del Padre. Così volontariamente lascia la Giudea, e in modo particolare la regione tra il Giordano e il Mar Morto, dove Giovanni aveva predicato e battezzato, per raggiungere una località di confine: Cafarnao, in Galilea. Cafarnao è una città sul ‘mare’ di Tiberiade, luogo di transito e tappa importante verso la costa e il mar Mediterraneo, lungo la strada che portava da Damasco a Cesarea. Regione diventata terra ‘impura’ popolata di pagani, luogo disprezzato dai giudei. “Da quella regione non ci si aspettava nulla di buono e di nuovo; invece, proprio lì Gesù, che era cresciuto a Nazaret di Galilea, incomincia la sua predicazione”, dice Papa Francesco all’Angelus. Proprio da lì, dallo stesso luogo dove aveva iniziati Giovanni, “proclama il nucleo centrale del suo insegnamento sintetizzato nell’appello: convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”. Terra tenebrosa, periferica; ma è da questa terra che viene l’annuncio, come potente luce che attraversa le tenebre ed evoca la profezia di Isaia che leggiamo nella notte di Natale: il popolo camminava nelle tenebre e ha visto una grande luce.
Nelle parole all’Angelus, il Papa ha un pensiero e una preghiera per i morti e le persone malate a causa del virus che si è diffuso in Cina, e un forte, deciso “mai più” ricordando il settantacinquesimo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau: “non è ammissibile l’indifferenza ed è doverosa la memoria”. Accanto a Francesco due ragazzi dell’Azione cattolica – “sono arrivati i compagni”, dice – per dire ancora una volta sì alla pace. Convertirsi, dunque, per non far prevalere la violenza, il sopruso, il rifiuto dell’altro.
È una trasformazione del pensiero, convertirsi. Non si tratta di cambiare abiti, ma le abitudini, ricordava tre anni fa Francesco. L’adesione “deve esprimersi in un’apertura fiduciosa del cuore e della mente per accogliere la buona notizia di Gesù”, la Parola “che cambia il mondo e i cuori”.
Sulle rive del ‘mare’ di Galilea, Gesù propone a due coppie di fratelli di seguirlo, compiendo le stesse scelte che lui ha già fatto: lasciare gli affetti più intimi, il proprio lavoro, la propria casa. Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni rispondono senza indugio alla richiesta di Gesù: “subito lasciarono le reti… subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono”, leggiamo in Matteo.
Tutto ha inizio da una periferia, ricorda Francesco nell’omelia in San Pietro, prima domenica della Parola di Dio. Messaggio esplicito: “la Parola che salva non va in cerca di luoghi preservati, sterilizzati, sicuri. Viene nelle nostre complessità, nelle nostre oscurità. Oggi come allora, Dio desidera visitare quei luoghi dove pensiamo che non arrivi. Quante volte siamo invece noi a chiudere la porta, preferendo tener nascoste le nostre confusioni, le nostre opacità e doppiezze. Le sigilliamo dentro di noi, mentre andiamo dal Signore con qualche preghiera formale, stando attenti che la sua verità non ci scuota dentro. E questa è un’ipocrisia nascosta”.
Il vero percorso di conversione comincia da qui, per il Papa: “l’incontro con il maestro divino, col suo sguardo, con la sua parola ha dato loro la spinta a seguirlo, a cambiare vita mettendosi concretamente al servizio del Regno di Dio”. Incontro sorprendente e decisivo che muove i discepoli, “trasformandoli in annunciatori e testimoni dell’amore di Dio verso il suo popolo”. L’invito a muoversi di Francesco è per ognuno di noi affinché “sulle orme del Salvatore” possiamo “offrire speranza a quanti ne sono assetati”.