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Pietro Pompei: le Varie fasi del lavoro del funaio

 

Di Pietro Pompei

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Una grande ruota poggiata su due corti travetti,  a loro volta fissati su un bancale a terra, veniva fatta ruotare da “lu ci” (il ra    ga zzo) mettendo in movimento  le “girèlle”  ( rotelline  con  la  scanalatura  al centro  che  in numero di quattro erano fissate ad una tavoletta che a sua volta era posta su un sostegno conficcato a terra), mentre “lu fenàre” (il funaio) iniziava la filatura di “nu nucchie” un fascio di canapa annodato (una noce) e più lavorata  (fiòre)  al  pettine o  di  una “mannèlle”  (un  fascio  meno pettinato)  di  canapa  che  teneva  ammassata   intorno  alla  cintura  e procedeva a ritroso con in mano una “pèzze” (una felpa bagnata tagliata da un vecchio cappello).  Arrivato  al termine del sentiero che normalmente era di 33 mt., agganciava  la prima “attorcigliatura” ad una delle due punte  “spaccate”  della “furculètte” (un bastone a Y piantato per terra); mentre “lu ci” la staccava dalla prima “girèlle” e la legava a “lu père” (un bastone piantato per terra che serviva da ferma filo). Lungo il sentiero erano sistemati i “crastije” (legni a T con sopra tante punte) che servivano per separare il filato. La seconda “attorcigliatura”  procedeva come la prima. Nella terza “lu fenàre!’ data la voce a “lu ci”,   iniziava la  vera  lavorazione  dello  spago,  legando  i  tre  fili  precedenti  a “lu crucètte” (un marchingegno formato da un pezzo di cuoio (poi sostituito da un cuscinetto) con al centro uno spillone con una grande testa e con la punta torta a gancio, il tutto ancorato ad un mattone che faceva da contrappeso  mobile).  Nel  frattempo  “lu  ci”  riportava  il  primo  e  il secondo filo sulla seconda e la terza “girèlle”. “Lu fenàre” iniziava a “cummètte  lu fèle” (l’attorcigliatura) tenendo separati i tre fili con la “fermètte” (un cono di legno con tre scanalature) talvolta  con le dita, procedendo  dal  fondo  verso  l’inizio   del  percorso.  Lo  spago  ottenuto veniva slegato dalle “girèlle” e fermato momentaneamente  su lu père” e si iniziava una nuova filatura. Arrivato in fondo “lu fènare” slegava lo spago  ottenuto  in  precedenza  da  “lu  crucétte”  e  mentre  il  ragazzo riportava questo sulla quarta “girèlle” che girava al contrario, il funaio legava l’altro capo ad un altro mattone che veniva trascinato fino a “lu crastellètte” (un separa filo più piccolo e più basso che stava ad indicare la misura che lo spago doveva raggiungere). Questo avveniva mentre il funaio continuava a produrre altri fili per il prossimo spago.

Una volta giunto il mattone a “lu crastellette” il ragazzo staccava il capo dello spago dalla quarta “girelle” legandolo accuratamente  di nuovo a “lu pere”, mentre il funaio aspettava la produzione di un altro spago per fare la coppia con il precedente per poi fissarli ad un altro “pere” posto di fianco a “lu crastellette”. Ogni tre coppie formavano, “na penetore”, un buon funaio riusciva a fare ben 12 “penetore” al giorno (72 spaghi). Al termine della giornata “lu fenare” sconficcava “lu pere” al quale aveva legato gli spaghi a coppia e lo attorcigliava a zig zag, quindi sconficcava anche quello del capo opposto e li metteva a bagno tutta la notte. Il  mattino  si iniziava  con  la “llisciatòre”.  A due  bastoni  di  sostegno veniva  fissato “lu  pére”   che  era  stato  sconficcato  per ultimo  e  che portava gli spaghi legati uno per uno, e si iniziava a svolgere l’altro fino al termine dove veniva conficcato “nu palafèrre”( un paletto di ferro) che doveva reggere tutte le coppie di spago tolte dal secondo “pére”. Questa operazione  avveniva  procedendo  dal  basso  verso  l’alto.  Aveva luogo allora “la llisciatòre” che consisteva nel far passare, sempre nello stesso verso,  tra  gli  spaghi  un  pezzo  di  rete  bagnata. Con  la “llisciatòre” venivano eliminate alcune imperfezioni come la “veréne” (spago intrecciato), “la rèschie” (pezzettini di legno rimasti nella canapa). M an mano che gli spaghi “si  mollavano”, a coppie venivano stesi ad un altro “palafèrre”  fino alla massima stesura. Quindi si facevano asciugare. La donna che portava da mangiare, provvedeva alla raccolta con la “nnaspètte” (un bastone con due sporgenze ai capi dalla stessa parte) e formava    i “fezzùle”  pronti da  riportare ai grossisti che in precedenza avevano  fornito la canapa  su fiducia,  ponendo cura che  il peso fosse almeno coincidente con la canapa prelevata.