Come chiameranno tra sei mesi o tra vent’anni la crisi di infezioni da coronavirus, come l’abbiamo vissuta in Italia a partire dal febbraio 2020, prima a Codogno e poi in tutto il Paese, e come saranno definiti con una parola o due gli enormi impatti sulla vita del Paese e del mondo intero? Useranno il nome di una città con più vittime o una data specifica?
Ogni volta che succede una crisi storica, l’evento più importante di una generazione, nasce subito anche una parola popolare per riferirsi a quel che è successo. Nacque così la parola inglese nine-eleven (9/11), la data dell’attacco terroristico che distrusse le Torri Gemelle a New York, l’11 settembre 2001. Da allora, la storia moderna e la politica internazionale si dividono in “prima del nine-eleven” e “dopo il nine-eleven”. Fu usata dunque la data precisa del disastro che fece vivere a New York una crisi gravissima, migliaia di morti e la paralisi totale della metropoli più vivace del mondo. L’attacco ebbe poi enormi impatti sulla politica internazionale e fece spuntare i primi dubbi gravi sulle prospettive della globalizzazione. Ancora oggi in Italia si usa dire “è successo un quarantotto” per esprimere in una parola una situazione di caos totale, cambiamento, confusione. In questo caso il riferimento è ai moti rivoluzionari in diversi paesi europei che iniziarono con le cinque giornate di Milano del 1848. Una situazione di caos molto fruttifera, visto che nacquero così il Risorgimento e lo Statuto Albertino, che rimase poi vigente per quasi un secolo. Allo stesso modo, l’espressione “combinare un ambaradan”, nel senso di una baraonda, ricorda la battaglia storica nel febbraio 1936 sull’altopiano etiopico di Amba Aradam. Una battaglia molto cruenta tra l’esercito italiano e quello etiopico con migliaia di morti su ambedue i fronti e un grande caos, visto che alcuni gruppi abissini cambiarono fronte più di una volta. Quando invece una crisi è allo stesso tempo politica ed economico-sociale per un periodo prolungato si usa la sua durata o la sua distopia principale per definirla, per esempio il ventennio fascista, il periodo dell’apartheid in Sud-Africa, il Maccartismo negli Stati Uniti.
Ma la crisi coronavirus non ha un vero luogo specifico, visto che affetta tutto il mondo, pur essendo stata descritta dapprima a Wuhan, capitale della provincia cinese di Hubei. E la data precisa dell’inizio dell’epidemia sarà difficile da stabilire, anche se sappiamo approssimativamente che si tratta del dicembre 2019. L’hashtag #iorestoacasa ha avuto grande successo mediatico in Italia, convertendo un vecchio e diffuso malcostume da bamboccioni, in una nuova virtù da cittadini responsabili, un nuovo comportamento etico, a prima vista disagevole, ma costruttivo e necessario per fermare o rallentare l’epidemia. Ma iorestoacasa non descrive in alcun modo la complessità della crisi, né le sue cause, né alcuna delle sfide che ne derivano.
Per ora giornalisti, politici e esperti, epidemiologi, filosofi e politologi, non hanno ancora trovato una parola che la dica tutta sulla natura e sugli effetti dell’epidemia, sia la crisi dei primi mesi del 2020, sia la sottostante crisi sistemica, ambientale e di governabilità, sia i suoi impatti socio-economici, sia quelli futuri di natura culturale e politica.
La crisi-opportunità nata all’inizio del 2020 io la chiamerei festina lente, due parole in latino per descrivere uno stile di vita più sobrio e più responsabile, cioè “fai in fretta lentamente”. Questo affascinante ossimoro sembra quasi un indovinello, perché è fatto di parole che si contraddicono a vicenda. Lo ricordò nel 1500 Erasmo da Rotterdam nella sua raccolta di adagi (“Adagia”), massime e consigli per la vita davvero curiosi, tra i quali descrisse anche la sfortunata fortuna, altra istantanea adatta a questo nostro tempo. La brevità appropriata e assoluta della frase conferisce una grazia superlativa alla figurazione retorica ma brillante e con un po’ di umorismo. Festina lente allude alla necessità di cambiare subito stili e ritmi di vita, accogliendo le opportunità offerte dalla serendipità, ristrutturando le attività in modo che ci sia equilibrio tra le urgenze e la diligenza del vivere in modo partecipativo, rispettoso e ben pensato, tranquillo, sostenibile, bello, equo, felice.
Aggiunge Erasmo: “Se soppesate attentamente la potenza e il sentimento del nostro proverbio, la sua forte brevità, quanto è fertile, quanto è serio, quanto è benefico, quanto è applicabile a ogni attività della vita, arriverete facilmente a capire che tra l’enorme numero di detti che conosciamo non se ne trova nessuno di maggiore dignità. “Affrettati lentamente” dovrebbe essere scolpito sulle colonne di ogni edificio pubblico e privato. Dovrebbe essere scritto sugli archi delle chiese in lettere d’oro. Dovrebbe essere dipinto sulle porte dei palazzi più importanti, inciso sugli anelli di cardinali e patriarchi e incastonato negli scettri dei re. E ancora, dovrebbe essere scritto su tutti i monumenti, fatto conoscere all’estero e moltiplicato in modo che tutti lo ricordino e ce l’abbiano sempre davanti agli occhi…”. Festina lente fu anche il motto di Augusto, imperatore romano e del granducato dei Medici a Firenze, ambedue momenti di grande ricerca di innovazione politologica e di diritti e doveri dei cittadini.
Oggi potremmo dare un nuovo significato a quelle due parole, per sottolineare la loro energia innovativa e rigenerativa della società civile e dell’economia durante e dopo la grave crisi causata dall’epidemia di coronavirus.
Parafrasando i suggerimenti del leader ambientalista, grande pacifista e nonviolento altoatesino Alexander Langer, morto 25 anni fa, potremmo riscoprire un’alternativa al motto olimpico citius, altius e fortius, quintessenza della nostra civiltà e della sua intrinseca competizione a volte violenta, che ci ha abituato ad essere più veloci, arrivare più in alto e essere più forti. Infatti, restando a casa a prenderci cura allo stesso tempo del lavoro e della famiglia, abbiamo scoperto e apprezzato il contrario: il lentius, profundius e soavius. Abbiamo assaggiato come possiamo capovolgere le priorità della nostra vita, diventando più lenti invece che più veloci, più in profondità, invece che più in alto e più dolci e soavi invece che più forti.
Da questa fresca visione dell’umanesimo come in un ospedale da campo potrebbe scaturire una nuova scuola diffusa di umanità, di progresso e di pace in epoca di trasformazioni epocali. Credo che, se tornasse oggi don Lorenzo Milani direbbe “I care… more, better, deeper and smarter!”. Mi prendo cura… di più, più in profondo, meglio e in modo più intelligente.
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