È possibile che quanto stia per scrivere risulti impopolare, ma d’altro canto “se cercassi ancora di piacere agli uomini, non sarei servitore di Cristo!” (Gal 1, 10).
Ebbene, variando sul tema della possibile valorizzazione di questo periodo, vorrei condividere con voi una riflessione sui “flashmob” che stanno popolando le vie (fin troppo poco) deserte e le piazze (ancora non abbastanza) vuote delle nostre città.
Oggi, dal terrazzo della mia parrocchia, più volte ho sentito risuonare tentativi di canti in coro riecheggiare da un palazzo all’altro (chiaramente, sempre fuori tempo per distanze e capacità), casse di stereo a tutto volume, grida, applausi estemporanei per una non meglio precisata solidarietà…
Da un punto di vista antropologico, tutto ciò è comprensibile e intenerisce il cuore: la gente, affacciandosi dai balconi e dalle finestre, si mette a cantare, a gridare, ad applaudire… tutti cercando di farsi coraggio come possono, e in questo modo provando forse ad abbattere il muro della solitudine, e della paura che incombe.
Ma è davvero questo il rimedio alla sfida che la paura della morte ci ha lanciato? Cercare di coprirla con grida, con musica sparata a palla, con applausi che risuonano nel vuoto? Cosa resta, dopo?
Quando la musica si spegnerà, e gli applausi cesseranno, e le grida si zittiranno, “quando tremeranno i custodi della casa e si curveranno i gagliardi e cesseranno di lavorare le donne che macinano, perché rimaste poche, e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre e si chiuderanno i battenti sulla strada; quando si abbasserà il rumore della mola e si attenuerà il cinguettio degli uccelli e si affievoliranno tutti i toni del canto; quando si avrà paura delle alture e terrore si proverà nel cammino” (Qo 12, 3-5), magari per timore del colpo di tosse o dello starnuto di un passante. Un’ilarità becera e spumeggiante, esattamente come la schiuma della bevanda da cui prende l’attributo, dura poco, e lascia un gusto amaro in bocca. Se la strategia che proviamo per vincere la paura è l’esagitazione e l’evasione, questo non sconfigge il nemico che ci attende rientrati dal balcone: la paura.
Questo non è un tempo di evasione alle periferie dell’essere, è piuttosto un tempo che ci invita a focalizzarci, ad andare al cuore, al centro, all’essenziale. È un tempo che ci invita a stare, a riflettere, a fare silenzio per ascoltare.
È, in breve, il tempo di Quaresima, oggi più eloquente che mai.
Verranno i giorni della gioia e della vittoria, ma non sono questi: questi sono i giorni della serietà necessaria, e dell’attenzione; i giorni della cura, della vigilanza e della sobrietà.
Questi sono giorni in cui prendere sul serio, e in cui prendersi sul serio.
Non dobbiamo avere paura della serietà, perché è la condizione di possibilità di un avvenire migliore, e di un amore più solido.
Non solo non dobbiamo temere, ma dobbiamo desiderare il silenzio: sarà Dio a riempire questo vuoto. Lasciamolo fare.
Non dobbiamo avere paura della Quaresima: essa ci prepara a vivere al meglio la Pasqua.
Aggiungo di sfuggita… non dobbiamo temere neppure la morte: è la maestra austera che ci insegna ad amare la vita, e che ci fa passare alla Vita eterna.
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