Dopo la doverosa digressione di affetto e di preghiera, in cui comunque non ci siamo discostati dal Vangelo di Lazzaro che ci sta guidando in questi giorni, torniamo a meditare su questo brano così importante, affinché esso rischiari ancora gli aspetti più luttuosi di questa Quaresima duemilaventi. Perché di aspetti luttuosi purtroppo ce ne sono, e non pochi, e non per pochi. Come abbiamo asserito più volte, essa ci offre senz’altro spunti fecondi per la conversione e la maturazione, ma questi punti di luce sono tali proprio perché lo sguardo pasquale riconosce le tenebre, e non ha paura di attraversarle con il Risorto. E allora, dopo avere contemplato l’altro ieri il Signore che affida un amico deceduto al Padre, confidando che da Lui lo avrebbe riavuto, oggi vogliamo invece osservare come reagisce la gente dinanzi a questo Dio che piange davanti alla misera sorte dell’uomo fuggito dal suo amore e finito nella tomba.
“Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: ‘Guarda come lo amava!’. Ma alcuni di loro dissero: ‘Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?’” (Gv 11, 35-37).
Se la prima considerazione ci commuove, perché non finiamo mai di stupirci di un Dio che ci tiene davvero all’uomo, la seconda non ci sorprende. L’uomo polemizza con Dio, lo rimprovera di preferire l’empatia con la povertà dell’uomo all’attestazione della sua onnipotenza. Queste parole ce ne ricordano altre: “Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: ‘Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!’” (Lc 23, 39).
C’è poco da fare: all’uomo di carne interessa più il potere che l’amore.
Gli interessa una soluzione, più che la comprensione. Il gioco è molto sottile, e profondamente tentatorio: “Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane” (Mt 4, 3).
Per tutta la sua vita terrena, Gesù sarà aggredito dalla tentazione di rinnegare la sua incarnazione, così da risolvere sbrigativamente il vuoto violando la realtà.
Ma chi pensa a questo modo, e vorrebbe che anche Dio pensasse così, non disprezza solo la logica dell’incarnazione: disprezza anche se stesso, e la propria povertà. Non si guarda a Dio che vuole abbracciare e fare propria la nostra miseria, fino a scendere con noi nel sepolcro, non interessa più la nostra effettiva condizione bisognosa d’amore, ma ci si riduce a voler evadere dalla realtà per una situazione idilliaca e problematica.
Siccome la croce è scomoda, si cercano in Dio pretesti per scenderne… solo che Lui non ci sta.
Perché Lui sa che qui si cela la trappola: se Cristo avesse affrontato le crisi della vita umana, e la sua stessa Croce, a “colpi di bacchetta magica”, l’incarnazione sarebbe stata vanificata, e noi non saremmo stati salvati, e la morte sarebbe ancora il nostro destino finale.
Il Dio dei nostri deliri di onnipotenza produrrebbe una stirpe umana sana, smagliante, invincibile – ma in ogni caso destinata un giorno a morire, e lì finire. Perché la carne è carne, e se si punta solo su di essa e sulla sua salute, ci si dimentica che prima o poi essa deve comunque decomporsi.
E invece, proprio per il fatto che Cristo ha preferito stare con noi come noi fino in fondo, fino al fondo squallido e tenebroso della tomba, da lì poi ha potuto tirarci fuori risorgendo. Noi vorremmo un Dio che ci riportasse indietro (a quando eravamo sani, giovani, forti) o avanti (a quando potremmo essere tranquilli, ricchi, spumeggianti), ma il Dio vero è il Dio del presente (e infatti è Presenza), e dal presente non vuole semplicemente portarci avanti, tirando a campare – vuole portarci oltre, vuole farci fare Pasqua. Non ci vuole dare qualche annetto in più, vuole darci l’infinito e l’eterno.
I miracoli che Cristo compie non sono prodigi problem-solving a costo zero: le guarigioni e i segni che ha compiuto sono stati possibili perché ha dato via la sua, di vita, facendola fluire in noi.
Senz’altro, nel Corpo mistico in cui siamo innestati questa vita continua a fluire, e dunque Egli continua al presente a operare guarigioni, liberazioni, resurrezioni… ma tutti questi segni, che servono a confermare la verità del Vangelo, sono solo palliativi temporanei, perché chi è risanato si riammalerà, e chi è stato resuscitato dovrà comunque morire (tant’è che anche il povero Lazzaro sarà ucciso – cfr. Gv 12, 10).
Una sola è l’opera decisiva e definitiva del Figlio: la vittoria sulla morte attraverso la Pasqua, anticipata in questa vita, in chi crede, dalla vittoria sulla paura della morte che, finché rimane operativa, sarà la sorgente oscura di tutto ciò che in noi è menzogna, violenza, disperazione. È dalla paura della morte che nascono le nostre pretese e le nostre rimostranze verso di Lui, anche quando ci diciamo credenti.
Dio, accompagnandoci passo passo nel nostro cammino, vuole molto semplicemente educarci a non avere paura: a non avere paura della nostra debolezza, e neppure della morte, perché Lui è con noi sempre, e un giorno ci aiuterà a spiccare il grande balzo, e a fare Pasqua nel suo Regno.
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