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Vescovo Bresciani: Il sacerdote al tempo del Coronavirus

DIOCESI –  “Carissimi sacerdoti, in questo stranissimo tempo che ci è imposto da uno dei più piccoli organismi della terra, neppure visibile ad occhio nudo, penso con grande gratitudine a voi e al ministero che in nome di Cristo svolgete nella Chiesa. Condivo le vostre preoccupazioni per i fedeli che vi sono affidati e mi sento profondamente unito a voi nella preghiera. Gesù ci ha detto: “Nel mondo avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). Vorrei rivolgervi la stessa esortazione: abbiate coraggio, sappiamo in chi abbiamo posto la nostra fiducia (cfr. 2Tim 1,12)”.

Ecco le parole di esordio del nostro Vescovo Mons. Carlo Bresciani in una lettera scritta e rivolta ai sacerdoti in questo difficile momento storico di emergenza sanitaria. In essa Mons. Bresciani continua affermando che “questo tempo, che richiede una pausa da tutte le attività che affollano (forse anche troppo) la nostra giornata di normale ministero, ci porta a interrogarci sul nostro essere preti così, in questa situazione. Che senso ha essere preti in questa situazione in cui ci è impedito perfino di celebrare la santa messa con i fedeli o amministrare i sacramenti, se non in casi veramente urgenti e gravi di pericolo di vita, ma sempre a distanza e protetti, quasi dovessimo essere degli astronauti chiusi nel loro scafandro spaziale?”

E ancora: “Mi viene in mente Romano Guardini che, nel suo libro Le età della vita, dice che la maturità della vita è segnata dalla diminuzione delle attività, ma da una crescita nell’interiorità. Non è che questa privazione di attività possa essere anche per noi uno stimolo verso una maggiore maturità del nostro ministero nel senso che ci porta a riflettere e a vivere sull’essenziale? Su che cosa fondiamo il nostro essere preti? Forse il Signore ci sta facendo riflettere sulla tentazione dell’attivismo, per cui non abbiamo mai tempo per fermarci a lungo soli con Lui: soli cum solo come diceva il card. J.H. Newman. Faccia a faccia con Lui.Sono domande che anch’io mi faccio in questa apparente inattività, in questo lungo tempo sospeso. È solo tempo vuoto, fatto solo di silenzio e di attesa che passi la burrasca, o è tempo che può anche essere di grazia? Nella fede sappiamo che anche il deserto può essere grazia e che ogni tempo può essere propizio (kairòs). “Ecco ora il tempo favorevole, ecco ora il giorno della salvezza” (2Cor 6,3). Ora! Non può essere così anche per noi, anche se siamo provati? Dio ci chiama in questo deserto per parlare al nostro cuore. Abbiamo iniziato questa Quaresima meditando il passo di Os 2, 16: “Ti condurrò a me nel deserto e parlerò al tuo cuore, e canterai con me come ai giorni della tua giovinezza”. Non sapevamo quale deserto ci aspettasse, ma certo era vero che voleva parlare al nostro cuore. All’origine della nostra vocazione ci sono due verbi: venite e andate che a una lettura superficiale sembrano tra loro in contraddizione, ma che invece sono due momenti inseparabili della vita dell’apostolo. Diastole e sistole di un cuore sano. Lo stare con Lui e l’andare in nome suo. Il venite però precede sempre l’andate. Ora è il momento dello stare con Lui, la scusa che non abbiamo tempo non resiste più. Stare con Lui per quello che siamo. Senza questo stare, l’andare è vuoto, è battere l’aria. Lasciamoci incontrare dal Signore: è Lui che viene incontro a noi. È Lui che ha qualcosa da dire a noi, non tanto noi a Lui. È tempo di fare silenzio, di non immergerci nel frastuono delle voci e dei pareri. Silenzio per ascoltare il cuore e confrontarci con la nostra interiorità, per capire il nostra essere di fronte a Dio. Ci vuole tempo e preghiera per capire la volontà di Dio. È momento salutare per noi.

Venite: è iniziativa sua. Gesù usa spesso questo verbo, anche con i suoi discepoli. È il verbo della chiamata. Tutto parte da qui, da questo venite, perché il nostro sacerdozio si fonda innanzitutto sull’essere stati incontrati da Lui, sul lasciarci incontrare da Lui e sull’aver accettato di stare con Lui.

“Venite in disparte e riposatevi un po’” (Mc 6, 31): riposatevi un po’ con me, ci sta dicendo il Signore in questi giorni. Non si tratta solo di un riposo fisico. Forse avevamo bisogno proprio di questo, perché presi dalle molte attività l’avevamo un po’ trascurato. Certamente celebravamo e seguivamo tante iniziative pastorali per il popolo, ma forse un po’ meno per noi. Certamente anche ora, sia pur nella solitudine, celebriamo per il popolo, ma in questa solitudine il dialogo è più tra noi e Lui e può essere condotto con più calma e anche più intimamente. Siamo chiamati a vivere  quella interiorità che fa la saggezza del presbitero, dell’anziano, e che scaturisce non tanto dal fare cose buone quanto dall’ascoltare. Ascoltare quello che Lui ha da dire a ciascuno di noi singolarmente: parola che ci mette più profondamente in contatto con noi stessi e ci rivela la nostra autentica identità. Cor ad cor loquitur, parla al nostro cuore dal profondo del suo cuore.

Ovviamente rifuggiamo da forme intimistiche che non appartengono alla dinamica dell’incarnazione e della missione. Per questo coniughiamo il ‘venite‘ con l”andate‘, come Gesù ci chiede. Evitiamo anche la tentazione dell’attivismo solo tenendo strettamente uniti i due verbi. ‘Andate‘ è il verbo della missione. Questo ‘andate‘ ora lo viviamo, innanzitutto, portando il nostro popolo davanti a Dio nella preghiera. È il primo e fondamentale atto del nostro ministero. Noi non preghiamo mai da soli, neanche quando siamo chiusi nel segreto della nostra stanza, perché la preghiera di un sacerdote (ma non solo) è sempre anche di intercessione per il popolo, di offerta di noi stessi per il popolo.

Nella preghiera ci facciamo voce del nostro popolo, implorando Dio per loro e, spesso, al posto loro. Offriamo a Dio il nostro sacrificio spirituale, cioè noi stessi insieme con Lui (cfr. Rom 12, 1). Offriamo noi stessi per loro, come Gesù. Sono convinto che il nostro sacerdozio ha questa missione e si nutre, innanzitutto, di questa comunione di offerta al Padre insieme con Lui. Non si misura sul fare, per quanto necessario quando possibile, ma sull’offrire noi stessi in sacrificio spirituale. Sappiamo che questa offerta spesso è nascosta nel segreto di noi stessi. E non possiamo dimenticare che non c’è un offrire, senza un soffrire che ci scava nel profondo e apre feritoie alla grazia. Privati da tutte le attività (per certi aspetti da tutto il potere) ci resta l’essenziale: offrire noi stessi in comunione con Gesù e farci intercessori per il popolo. Non è questo che Gesù fa nel Getsemani, ormai spogliato di tutto? Non è questa la radice di ogni nostro apostolato?

Dopo questo periodo, che comunque in qualche modo passerà, sarà necessaria una ricostruzione poderosa del nostro popolo, non solo dal punto di vista economico, ma soprattutto spirituale, nel senso più ampio del termine. Le ferite saranno purtroppo tante (lo sono già anche se non è finita) e molte false sicurezze che ci hanno illuso in questi anni saranno cadute.

L’ideologia che il progresso e il benessere economico ci proteggono da tutto ha manifestato tutto il suo fiato corto: con il coronavirus ha contratto anch’essa una grave polmonite bilaterale, questa sì propiziatrice, forse e me lo auguro, di una nuova saggezza di vita. Svanite tante illusioni di pifferai magici, bisognerà tornare all’essenziale e a una concezione della vita più realistica, per noi stessi, innanzitutto. Forse avevamo bisogno di un bagno, ahimè doloroso, di realismo di quanto sia fragile la vita dell’uomo sulla terra, perché, come dice il salmista, “l’uomo nella prosperità non comprende” (Sal 49 [48], 21) e pensa che la dimensione orizzontale della vita sia in sé stessa sufficiente. Vinceremo questo coronavirus, ma avremo maggior consapevolezza di quanto sia fragile la nostra vita su questa terra. Non avremo bisogno di un Dio tappabuchi, ma di un Dio che ci toglie dalle illusioni di onnipotenza, quelle di poter essere dio al posto suo, che era poi l’illusione drammatica di Adamo ed Eva.

La ricostruzione spirituale che ci attende è la sfida che si prospetta per il nostro apostolato e per la nostra stessa Chiesa. Lo stare con Gesù in questa solitudine, che ci è imposta, può aiutarci a prepararla, interrogando Lui. Lasciamoci istruire da Lui, riponendo la nostra fiducia in Lui come hanno fatto gli apostoli che hanno incominciato la missione privi di tutto, tranne che di una fede incrollabile in Lui, nutrita dall’amore.

Dopo questi giorni, saremo chiamati ad esercitare il ministero della consolazione nei confronti di una comunità ferita non solo dalla malattia e dalla morte, ma anche dall’incertezza e dalla paura, ferita psicologicamente e spiritualmente. “Consolate, consolate il mio popolo, dice il Signore” (Is 40, 1). Non potremo accontentarci di una consolazione di maniera, fatta di quelle pie esortazioni delle quali ci si domanda che fondamento credibile possano mai avere di fronte alla morte, perché il coronavirus ci ha messo difronte alla morte. Noi sappiamo che fondamento della nostra speranza è la resurrezione, il Cristo risorto. Fondamento non può essere la vita su questa terra, per quanto sia giusto cercare di salvarla e proteggerla per quanto possibile.

La non possibilità di vivere le celebrazioni comunitarie, se non via televisione o via social, certamente è una dura prova e un grande sacrificio per tutti noi. Il coronavirus ha fatto emergere, attraverso reazioni scomposte di alcuni cristiani, anche le debolezze di una fede che si fonda su intensità emotive, più che su verità evangeliche. Lo sapevamo già, ma ora ci si pone il compito di riprendere una formazione cristiana che dia risposte adeguate a tali debolezze, compito non facile, ma che fa parte di quell’andate che il Signore ci ha consegnato.

Questo periodo ci ha fatto scoprire anche quanta generosità si è risvegliata nella nostra gente. C’era già, ma era nascosta alla narrazione pubblica, troppo persa in chiacchiere inutili. Penso agli esempi di eroismo del personale sanitario, a quello delle forze dell’ordine e al volontariato, per fare solo alcuni immediati esempi. Ma penso anche a sacerdoti che hanno dato letteralmente la vita. Anche senza adeguate protezioni, perché non ci sono in misura sufficiente per tutti, si dedicano ai malati senza sosta e ne pagano dei prezzi molto alti, mettendo a rischio anche la propria salute e perfino la propria vita. Mi sono di sprone e di incoraggiamento. Il nostro popolo ha delle riserve che vengono fuori soprattutto nei momenti difficili. Anche noi ne abbiamo e ne possiamo attingere sempre di nuove da nostro Signore.

Molte sono le sfide che ci stanno davanti. Se confidassimo solo in noi stessi ci prenderebbe lo sconforto, ma noi confidiamo nella Sua promessa: “io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). Quindi, non ci perdiamo d’animo “siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi” (2Cor 4, 8-9).

Coraggio, carissimi sacerdoti, ci è chiesto molto, ma possiamo dare molto con l’aiuto del Signore. Sento profonda gratitudine per quello che cercate di fare in queste dolorose situazioni per rimanere vicino ai vostri fedeli: sicuramente per loro è un conforto e lo è anche per me sapere che lo fate.

Come sempre vi accompagno con la mia preghiera e la mia benedizione”.

 

 

Sara De Simplicio: